7.5
- Band: THE BODY
- Durata: 48:50
- Disponibile dal: 11/05/2018
- Etichetta:
- Thrill Jockey Records
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Avere tra le mani un nuovo lavoro del duo statunitense più corrosivo degli ultimi anni è sempre un qualcosa che non può essere preso alla leggera. Come ogni macigno è infatti decisamente pesante e difficile da sostenere; tante volte addirittura letale. Se con l’ultimo “No One Deserves Happiness” si era tentato di arrivare ad un nuovo tipo di influenza, ancora più aperta e variopinta che in passato, anche in questo nuovo “I Have Fought Against It, But I Can’t Any Longer” il sound dei The Body sembra avere preso una piega ancora più straniante, come se il macigno fosse ‘diversamente’ pesante. L’album inizia infatti con “The Last Form Of Loving”, che sembra instaurare un discorso più easy-listening con l’ascoltatore, cercando di prenderlo piano per mano, con delle formule che ci si poteva aspettare, data l’evoluzione del progetto. Anche con la seconda “Can Carry No Weight” e la sua cassa in quattro il tono del discorso introduttivo permane quasi il medesimo, e le grida di Chip King sembrano echi corrosivi lontani, sotto la voce di Chrissy Wolpert, arrivando ad un qualcosa di incombente, ma tenuto ancora in lontananza. Solo con la terza “Parly Alive” il livello di abominio sonoro si amplifica ancora, fino ad arrivare al doom-noise di “The West Has Failed”, che diventa un dub elettronico marcescente intriso delle solite urla firmate The Body, con un contrappunto hip hop che abbiamo imparato a considerare ormai influenza portante delle ultime uscite di Buford e King. Questa è probabilmente musica che non ha schemi e non ha definizioni, che continua a nutrirsi di modifiche ed estensioni e che necessita sicuramente di una buona dose di pazienza per essere assimilata del tutto. Le dissonanze e gli effetti stranianti rimangono il perno fisso, così come quelle urla che sono l’emblema della produzione The Body, però il tutto si amplifica ancora di più verso territori nuovi, difficili da inquadrare appieno. Il tentativo di trovare della bellezza in qualche recondito punto del mondo, tra il marcio e il corrosivo, è un percorso che si decide di seguire o meno, nel corso dell’ascolto del duo di Portland, soprattutto quando resta da solo e non si mischia con collaborazioni varie. “Nothing Stirs” include magnificenza canora (Kristin Hayter dei Lingua Ignota diviene un’intrusione perfetta nell’album) eppure riesce a grondare inquietudine e malessere, esemplificando un percorso di continua evoluzione e contaminazione, che passa per la tossica “Sickly Heart Of Sand” (forse uno dei pezzi migliori del disco) e sembra concludersi con una triste epifania conclusiva in “Ten Times A Day, Every Day, A Stranger” (“I’ve reached the peak of emptyness”). Difficile riuscire a etichettare i The Body e il loro nuovo corso, così come è difficile non considerare questi lavori come un passaggio naturale e necessario verso un continuo divenire musicale. Sempre affascinante in ogni sua nuova manifestazione. Sempre complesso, articolato e straniante.