8.0
- Band: THE BODY
- Durata: 58:30
- Disponibile dal: 18/03/2016
- Etichetta:
- Thrill Jockey
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“The Grossest Pop Album Of All Times”, come è stato definito all’uscita. Il nuovo lavoro di Lee Buford e Chip King a nome The Body sembra subito essere qualcosa di veramente categorizzante. Chrissy Wolpert dei The Assembly of Light Choir inaugura infatti quello che probabilmente diventerà un album che sdoganerà totalmente i The Body dal circuito prettamente metal. Non che le premesse non ci fossero state in questi ultimi anni con le grandi collaborazioni con The Haxan Cloak, Thou, Sandworm e Wrekmeister Harmonies, ma in questo senso l’impianto quasi 80’s delle drum machine e dei pattern ritmici, così come di alcune sonorità più influenzate dalle tendenze più contaminate della musica di questi ultimi anni, travolgenti barriere ed etichette e trasfiguranti anche i canoni più tradizionali di genere, per non parlare di una copertina rosa che recita uno slogan da tributo alla tristezza nera del metal più oscuro, diventano i segnali inequivocabili di un percorso che sembra essere giunto a piena maturazione. Nessuno merita la felicità, e nonostante le tinte dance e il rosa d’appeal di facciata, Chip King ci ricorda cosa vuol dire piangere, sudare, grondare il Male. Le sferzate noise dei The Body più estremi ci sono tutte, seppur tinte dalle tinte eteree di certi violoncelli, tromboni e dalla ormai assidua collaboratrice Wolpert così come da Maralie Armstrong (in “Adamah” e “The Shelter Is Illusory”), aiutate da un impianto che comprende anche Seth Manchester e Keith Souza e da arrangiamenti ancora più minimali e ancora più certosini che in passato. “No One Deserves Happines” non è forse magniloquentemente annichilente ed estremo come il passato ma risulta parimenti terrificante e letale, persuasivo nel cedere al suo malessere e ad una cupezza di spleen che cola ancora come una vangata di ansia a e paranoia, ma con un tendaggio diverso, da vino rosato e tendaggio pop da camera. Se è difficile infatti percepire la familiarità con la linea di basso di “Two Snakes”, ispirata, come si legge sulla loro pagina Bandcamp, da un brano di Beyoncè, non sarà difficile trovare affinità con linee più easy-listening in brani come “Adamah” e ad un’ispirazione pop più di sentore che di risultato finale. E, ancora una volta, impossibile non rimuginare inquieti sul doom industriale di “Starving Deserter” e nell’epica tormenta prometeica di grida del finale”Presience”, una coppia di tracce che assurge a bandiera di un album che forse non rispetta la prima definizione datagli all’inizio come identificativa, ma si pone come baluardo dell’anno per quanto riguarda il fare musica che rappresenti l’anima, che sperimenti e che riesca infine ad essere assolutamente catartica. Il rosa, le influenze, le aperture miscellanee e la spirale luminosa che attende alla fine, con “The Myth Arc” e poco prima con “The Fall And The Guilt”, non defrauderà nessuno di un morbo nichilistico e caustico che ancora affossa le vie delle composizioni del duo di Portland, e allo stesso tempo suggella il superamento di un modus operandi vincolato da ciò che deve essere unicamente uno standard metal per portare ad un qualcosa di enormemente valido, riuscito e profondo.