8.5
- Band: THE CROWN
- Durata: 00:47:09
- Disponibile dal: 09/03/1999
- Etichetta:
- Metal Blade Records
- Distributore: Audioglobe
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Per un certo periodo, i The Crown sono stati senza ombra di dubbio tra le formazioni più originali e spiazzanti della scena svedese. Dopo un avvio di carriera a nome Crown Of Thorns, stilisticamente all’insegna di un death-black metal ricco di sfaccettature e perennemente in bilico fra violenza e malinconia, nel 1998 il gruppo decide di cambiare monicker per problemi di omonimia. Questo importante passaggio viene ulteriormente sottolineato da una pronta rinfrescata del sound: certe sterzate particolarmente brutali già presenti in alcuni brani dell’ottimo “Eternal Death” diventano il fulcro del nuovo materiale, mentre l’anima elegiaca viene relegata a ornamento, tanto da rendere antiquati i paragoni con band un tempo affini come Dissection, Necrophobic o Unanimated. Il cambio di attitudine è netto e “Hell Is Here”, il primo album di questa nuova realtà chiamata The Crown, finisce per configurarsi come un revival trasformista capace di pescare indistintamente e irriverentemente da riferimenti old school ascrivibili tanto al death metal quanto ad un background fatto di punk, rock’n’roll e thrash.
I cinque hanno talento, ma anche coraggio poiché, rispetto ai primi criptici lavori spesso impregnati di oscuro e cupo magnetismo, con “Hell Is Here” virano verso formule più crude e aggressive, conferendo al loro sound ritmiche ancora più urgenti e un carattere a dir poco sguaiato, proprio in un momento in cui tante formazioni svedesi stanno invece puntando su sonorità sempre più eleganti e/o accessibili. Le propulsioni hardcore e le cascate di blastbeat si inerpicano in costruzioni orecchiabili ma anche stranianti, sempre cariche di persistente mordacità. Vortici di riff ossessivi, che procedono ubriachi e iperbolici ostentando un’euforia dissacrante e allucinata, guidano ogni brano e danno vita ad uno strano ibrido a base di swedish death metal, Motorhead e Impaled Nazarene.
Alla base del disco vi è una visione disincantata di cosa sia il metal estremo: una visione lucida e consapevole che risuona come un grido furioso di rigetto verso tutto ciò che è pretenzioso. Nonostante permangano delle notevoli intuizioni melodiche e qualche break ‘virtuoso’ (vedi ad esempio la parte centrale e il ricamo acustico di “At the End”), qui l’intento dei The Crown è di andare dritti al sodo, di calcare la mano sulla veemenza anche con finalità di sberleffo verso una scena musicale che talvolta sembra prendersi troppo sul serio. Si avverte una voglia di purificazione, una ricerca di primigenia sintonia con gli elementi e con il predominio degli istinti. Il loro songwriting fa un abuso sfrontato di ritmiche febbrili e i riff si affastellano freneticamente, eppure le canzoni restano impresse grazie a chorus sempre vincenti e a geometrie che, anche in questo marasma generale, restano attente e funzionali. I cinque minuti di “1999 – Revolution 666” in questo senso parlano chiaro: la nevrosi non diventa caos incontrollato, ogni ingrediente ha una propria finalità e tempo a sufficienza per mettersi in luce e farsi ricordare.
Suonano insomma credibili, i The Crown: ci prendono a schiaffi, fanno sgorgare sangue, ma non dimenticano mai di metterci davanti ad una canzone fatta e finita, facendosi beffa di tutti i classici stereotipi su certo metal estremo. “Hell Is Here” è il disco che apre il periodo più esaltante della loro carriera.