THE CULT – Love

Pubblicato il 21/09/2019 da
voto
9.0
  • Band: THE CULT
  • Durata: 01:02:11
  • Disponibile dal: 18/10/1985
  • Etichetta:
  • Beggars Banquet

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Ci sono dischi seminali per aver creato solchi indelebili nel percorso della musica, cambiando e rimescolando scene e generi; gemme oscure, pietre miliari, architetture maestose adornate di note ed emozioni, tesori nascosti che aspettano di essere (ri)scoperti ed ascoltati; ci sono dischi pionieri di frontiere (estreme e non) inesplorate… e poi ci sono quei dischi semplici come un pezzo di vetro levigato, ma bellissimi per gli infiniti riflessi che emanano, in grado di attraversare decenni senza mostrare segni di invecchiamento, facendo venire la pelle d’oca a generazioni di ascoltatori.
“Love” – quattro lettere, infinite sfumature, talmente tante da far sbiadire il vero significato della parola in sè – secondo album degli inglesi The Cult si presenta nell’autunno del 1985 così, accompagnato da una enigmatica copertina minimale. Sarà la voce magica di Ian Astbury, sarà quel suono insieme grezzo e caldo della chitarra dell’allora platinatissimo Billy Idol-wannabe Billy Duffy, ma è subito strage di cuori: lo amano i nostalgici dei viaggi lisergici dei già gloriosi Sessanta/Settanta, lo amano gli ombrosi, neonati adepti della darkwave, lo amano i vecchi rocker compassati e, sotto sotto, lo amano anche i metalhead dal cuore d’acciaio, che nell’85 pasteggiano con un banchetto sontuoso di capolavori heavy. Perchè “Love” è tutto questo, ma miscelato con un’alchimia stregata ed esplosiva in grado di restituire una vera e propria pietra filosofale: brani strutturalmente semplici ma allo stesso tempo solidi, ammantati ora da una patina di melanconia gotica ed ora da venature di taluna crepuscolare psichedelia (“The Phoenix”), che solo nei capitoli successivi della discografia assumerà risvolti davvero acidi; atmosfere sognanti che respirano di immense praterie e sogni tribali dei nativi d’America (filo rosso nei rimandi visuali e testuali della band, forse anche dovuti alla permanenza giovanile di Ian Astbury negli Stati Uniti), senza però disdegnare l’appeal seducente e disinibito dell’hard rock. Il timbro vocale dell’istrionico frontman-santone è morbido, caldo e carico di un’energia dirompente che, ora sussurrando preghiere al vento (ne è esempio la ballad “Brother Wolf; Sister Moon”), ora dettando il ritmo, trascina il terzetto verso un’affermazione mondiale che non fa prigionieri; crediamo però che una voce speciale, pose liquide, provocanti, modulate su quelle di mattatori quali Alice Cooper o Steven Tyler, ed un look moderatamente fuori dal comune non avrebbero scintillato come fanno ancora oggi senza un basso ficcante (“Nirvana”), spasmodico e trascinante come solo un basso imbevuto di new wave può essere – e quello di Jamie Stewart di certo lo era -, senza una batteria groovy e ispirata (ad opera di Nigel Preston per la sola “She Sells Sanctuary” e Mark Brzezicki come session man in tutte le altre tracce), ma soprattutto senza la Gretsch White Falcon di Duffy. E’ quel particolare suono distorto della sei corde elettrica – insieme retrò e rock nell’accezione più classica del termine – a dare un tocco unico a tutto il platter, creando un marchio di fabbrica riconoscibile fin dalle prime battute. Dalle plettrate luminose dell’anfibia titletrack ai riff coperti da due dita di sabbia del canyon di “Hollow Man”, passando per l’immortale arpeggio degli anthem “Revolution” e “She Sells Sanctuary” (singoli entrati nelle classifiche di mezzo mondo), Duffy intesse trame lucide e coinvolgenti, mettendoci dentro un’ispirazione ed una passione che faranno scuola. Vera perla dell’album è “Rain”, che con il suo riff portante in grado di aggrapparsi tenacemente nella mente dell’ascoltatore rimane un capolavoro che non risente del passaggio del tempo: è una danza della pioggia onirica e bohèmienne, con Astbury impegnato a coniugare una plumbea orecchiabilità alle suggestioni geniali del comparto ritmico, un’onda dorata e camaleontica che traina l’intero album e lancia i tre verso il successo di futuri pezzi da novanta come “Electric” e “Sonic Temple”.
Un’ora e poco più in cui i meandri scuri e collosi della derive post-punk si tingono della luce ambrata del tramonto, dipingendo un chiaroscuro ipnotico in grado di irretire chi ha ceduto alle tenebre più fitte senza smettere per questo di sognare.

TRACKLIST

  1. Nirvana
  2. Big Neon Glitter
  3. Love
  4. Brother Wolf; Sister Moon
  5. Rain
  6. The Phoenix
  7. Hollow Man
  8. Revolution
  9. She Sells Sanctuary
  10. Black Angel
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