9.0
- Band: THE CULT
- Durata: 00:52:23
- Disponibile dal: 10/04/1989
- Etichetta:
- Beggars Banquet
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Emersi dal fitto sottobosco post-punk inglese nella prima metà degli anni Ottanta grazie al valido esordio “Dreamtime”, i The Cult assaporano meritatamente il successo mondiale con il successivo “Love”. “She Sell Sancutary” e “Rain” sono i singoli da stadio estratti prima della pubblicazione dell’opera che prelude ad una netta evoluzione stilistica, resa ancora più appetibile al grande pubblico da una produzione al passo con i tempi, magnificamente curata da Steve Brown. Gli umori gotici vengono ridotti ai minimi termini, per lasciare spazio ad un’esplosiva miscela eterogenea di blues, hard rock e fluttuante psichedelia, rifinita nei minimi dettagli da un cangiante mosaico chitarristico, architettato da uno strepitoso Billy Duffy. La logica scelta di richiamare il medesimo produttore non soddisfa le aspettative del collettivo britannico, il quale deluso dal risultato finale dei brani che avrebbero dovuto comparire in “Peace”, decide di volare a New York per affidarsi alle cure di Rick Rubin. Il barbuto guru impone al gruppo di rifare tutto da capo, così per l’occasione vengono reincisi otto brani, con l’aggiunta di un inedito e la cover di “Born To Be Wild” degli Steppenwolf. La scelta di prosciugare l’intricata intelaiatura sonora a favore di un rock’n’roll essenziale e vigoroso si rivela vincente permettendo al nuovo album, denominato opportunamente “Electric”, di proseguire la scalata verso il successo. L’intenso tour promozionale diventa il pretesto per la band di fare costantamente baldoria oltre ogni limite, trasformando radicalmente le tappe previste in una sorta di allucinante lungometraggio senza fine. Le date in Giappone vengono drasticamente cancellate ed i Nostri vengono rispediti a casa, per fare il punto della situazione e rimettere in sesto la propria carriera ad un passo dal baratro. Rifocillati da un’inevitabile e necessaria pausa ristorativa, il trio composto da Ian Astbury, Billy Duffy e Jamie Stewart ha il compito di reclutare un batterista per il nuovo album. Chris Taylor (Honeymoon Suite) ed Eric Singer (Badlands, Kiss) transitano temporaneamente nelle fila del ‘Culto’, prima di lasciar spazio a Mickey Curry, affermato session-man che ha collaborato con Hall & Oates, Brian Adams, Survivor e mille altri. Con una formazione relativamente stabile, i The Cult volano a Vancouver per affidarsi alle mani del giovane Bob Rock, astro nascente che si è fatto le ossa come ingegnere del suono con il celebre Bruce Fairbairn, colui che ha contribuito a rendere autentici successi mondiali dischi come “Slippery When Wet” dei Bon Jovi e “Permanent Vacation” degli Aerosmith. I primi contrasti emergono sin dall’inizio tra Astbury, il quale vorrebbe ripristinare ed accentuare il discorso psichedelico bruscamente interrotto dopo “Love”, e la coppia Duffy/Rock, intenzionata invece a consacrare il gruppo una volte per tutte alle capienti arene yankee. Il risultato di questi estenuanti scontri confluisce in “Sonic Temple”, opera composta da undici episodi egregiamente bilanciati tra la consueta irruenza hard rock elevata al cubo, accompagnata da un’ossessiva ricerca del chorus perfetto. La produzione potente ma finemente laccata inaugura un nuovo standard sonoro a breve replicato dai Motley Crue in “Dr. Feelgood” ed un paio d’anni dopo dai Metallica nell’amato/odiato ‘Black Album’. Da tale Tempio Sonico vengono estratti ben quattro singoli, permettendo al full-length di raggiungere la terza posizione nel Regno Unito e la decima negli Stati Uniti. La bomba al neutrone scagliata dall’irresistibile “Fire Woman” rappresenta il prezzo salato da pagare per un Astbury palesemente insoddisfatto dalla direzione intrapresa, così come l’avvolgente melodia di “Edie (Ciao Baby)” non faticherà ad imprimersi in eterno nella vostra testa. Il DNA dei The Cult non viene snaturato in favore del dio denaro, in quanto spiccano episodi complessi ed elaborati dal marcato sentore ‘zeppeliniano’, ben esemplificati dall’eleganza avvolgente di “Sun King”, dal mastodonte elettrico di “Soul Asylum”, dal fascino esotico di “American Horse” e dall’imperiosa melodia corale di “Sweet Soul Sister”. L’urgenza crepitante di “New York City” assume invece l’aspetto di un violento calcio nel sedere, complice la gradita presenza di un certo Iggy Pop ai cori. La poetica hippie viene riesumata dal contagioso ritornello di “Wake Up For Freedom”, mentre l’anfetaminico blues sparato a settantotto giri da “Medicine Train” appare come l’inevitabile preludio al deragliamento di un’epoca controversa ma irripetibile. Un inno alla decadenza.