8.0
- Band: THE CURE
- Durata: 00:49:21
- Disponibile dal: 01/11/2024
- Etichetta:
- Capitol Records
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Non è mai facile per una band sopravvivere ad un buco temporale di sedici anni tra un disco e l’altro. Ci sono riusciti i Tool dopo tredici anni e ci riescono pure Robert Smith e compagni, pur non senza problemi.
Gli ultimi due lavori, non proprio riusciti, avevano messo a dura prova la continuazione del gruppo di Crawley che aveva provato, confusamente, a dare seguito al concept del discontinuo “4:13 Dream”, salvo poi tornare sui suoi passi e scartare qualcosa come più di venti canzoni già pronte per ricominciare da zero.
Alla luce di quello che è diventato “Songs Of A Lost World”, possiamo dire che sia stata una scelta giusta e che ha rimesso il gruppo in carreggiata, lasciandosi andare a quello che sa fare al meglio: un rock triste, gotico, apparentemente sereno ma con un peso specifico intrinseco di tormento e tristezza che rimane inarrivabile.
E non è un caso che questo sia il disco migliore dei The Cure dai tempi di “Bloodflowers”, con cui condivide mood, libertà di scrittura e un produttore, Paul Corkett, che ha l’intelligenza e la bravura di (ri)tirare fuori tutte le caratteristiche della loro musica, senza aver paura di spogliarla in parte dalle rotondità date dai tappeti di sintetizzatori e tastiere in favore di un suono più organico e grezzo.
Il basso di Simon Gallup non ha mai suonato così distorto ed aggressivo, lasciandosi dietro la morbidezza data da effetti come flanger e chorus, mentre le stesse chitarre mantengono un equilibrio precario tra atmosfera e ruvidezza, lasciando a volte spazio totale a strati di tastiere come nella meravigliosa “Alone”, primo singolo.
“Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo, da soli” declama Robert Smith, quasi a voler avvertire che potremmo essere di fronte al testamento finale, al canto del cigno per una band che ha giocato per tutta la propria carriera con i fili di un rock emotivo e toccante più che mai.
Così come nella classica “Plainsong” ci vogliono la bellezza di tre minuti e mezzo prima che la voce entri in scena anche nel brano appena citato, accompagnata da una lenta marcia ipnotica che cresce in maniera subdola, senza raggiungere mai un picco ma lasciandoci lì a pochi metri dalla cima, con più domande che risposte; un brano intenso che aveva già dimostrato le sue potenzialità dal vivo nell’ultimo tour insieme alla conclusiva “Endsong”, per certi versi simile come struttura.
Dieci minuti perfetti, guidati da una batteria marziale e rituale e una libertà espressiva che prende in prestito le strutture aperte del post-rock, a costruire un commovente commiato ad un mondo perduto, come recita il titolo del disco. “Endsong” risulta quindi uno dei brani più belli della carriera degli inglesi, un crescendo continuo che si sorregge su una produzione sporca e per nulla accogliente, in perfetta simbiosi col il concept generale.
In mezzo troviamo altre sei canzoni che spaziano dalle atmosfere più rilassate di “A Fragile Thing”, il momento più classicamente The Cure di tutti, e una toccante “I Can Never Say Goodbye” che ci riporta ai tempi di “Bloodflowers” in cui irrompono le chitarre acide di Reeves Gabrels a spezzare un atmosfera quasi rilassata.
La disillusione di “And Nothing Is Forever” ci culla attraverso le atmosfere tanto care a “Disintegration”, mentre “All I Ever Am” e “Drone:Nodrone” – sorta di “Fascination Street” pt. 2 – si mangiano quasi tutto il nuovo filone indie/post-punk attuale, ristabilendo le giuste gerarchie.
Rimane infine “Warsong”, il brano più estremo di tutti, con il suo suono catastrofico e violento, fatto di basso distorto, muri di chitarre che rasentano il noise rock e un substrato di sintetizzatori che cercano di ammorbidire quella che è una vera e propria presa di coscienza sul tema del conflitto, sia questo interiore, bellico o interpersonale. Una canzone senza una vera e propria struttura ma che si evolve attraverso un unico tema, al quale si agganciano arrangiamenti densi e asfissianti come mai avevamo sentito prima.
Se “Songs Of A Lost World” rappresenti il capitolo finale della carriera di Robert Smith e soci non è ben chiaro, ma quello che è sicuro è che se a qualcuno spettasse il compito di raccontare la società attuale, con le sue paure, i suoi estremi e le sue ipocrisie, nessuno avrebbe potuto farlo meglio di loro.
Non siamo qua a parlare di capolavoro, non avrebbe senso: ciò invece a cui ci troviamo davanti è un disco unico, spigoloso e coraggioso, una perfetta, ludica e disillusa narrazione del momento storico in cui viene pubblicato.
“It’s All Gone, It’s All Gone, It’s All Gone
No Hopes, No Dreams, No World.”