6.0
- Band: THE DEVIL WEARS PRADA
- Durata: 00:51:12
- Disponibile dal: 16/09/2022
- Etichetta:
- Solid State Records
Spotify:
Apple Music:
“The Act” è stato un bel salto per i The Devil Wears Prada, con il quale la formazione metalcore sopravvissuta dell’era MySpace ha tentato il grande passo verso il cambio di genere, quell’apertura del sound profetizzata dai Bring Me The Horizon (si può storcere il naso quanto si vuole, ma non esiste gruppo più influente sulla scena) e portata a casa egregiamente da gruppi come Architects, Underoath e Northlane, solo per citarne alcuni. Quello del 2019 fu un disco dalle grandi ambizioni che purtroppo si portò dietro altrettanti difetti, come se fosse figlio di una transizione poco matura. L’EP “ZII” l’anno scorso ha riacceso le speranze di chi è rimasto parzialmente deluso dalla svolta soft, mettendo in chiaro quanto i TDWP siano di nuovo in grado di far bene in territori feroci e brutali; perché dunque non sintetizzare le due anime del gruppo prendendo il meglio da entrambi i mondi? “Color Decay” purtroppo non ci pensa nemmeno. Sin dal primo ascolto è evidente come l’ottavo disco in studio della band non solo riprenda il discorso esattamente dove era stato interrotto da “The Act”, ma anche come questo “Color Decay” ricalchi in maniera poco fantasiosa il precedente capitolo.
Si parte benissimo con brani dal sapore moderno e melodico, ma tirati e molto ben riusciti sia per le linee melodiche che per gli inserti tastieristici e gli arrangiamenti. “Extinction” e “Salt” sono figlie dei migliori Bring Me The Horizon, “Watchtower” ci mostra finalmente il lato più incazzato e pericoloso del sestetto, mentre “Noise” fa bene nel suo incedere ispirato e solenne. Arriva poi “Broken”, che pur essendo davvero toccante e ben scritta ci ricorda davvero tantissimo “Chemicals”, una delle poche perle del precedente full. Ci speriamo di nuovo con “Sacrifice”, un altro brano che sembra uscito da “That’s The Spirit”, ma che intrattiene e diverte per merito di abili penne e dinamiche collaudate. Da “Trapped” in poi il disco però si spegne completamente, con la ripetizione di brani lenti e sperimentali costruiti sulla performance sofferta di un Hranica costantemente in ‘over acting’, intento ad esprimersi nella maniera più drammatica e sentita possibile senza mai sfiorare l’efficacia degli episodi migliori. Non bastano le discrete “Hallucinate” e “Cancer” per risollevare le sorti di un disco a volte stanco, sbilanciato nella tracklist e comunque derivativo nei suoi momenti migliori. Non neghiamo la sufficienza ai TDWP, perché i pezzi ci sono e non siamo davanti a una band di sprovveduti; calando il disco nella discografia del gruppo e ripercorrendo la storia della band, però, non riusciamo ad andare oltre. Vedremo come reagirà la fan-base: a nostro parere forse sarebbe meglio concentrare le voglie alt-rock in EP o progetti paralleli, invece di fare il contrario.