6.5
- Band: THE DEVIL'S TRADE
- Durata: 00:46:30
- Disponibile dal: 28/08/2020
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
“All my loved ones I have seen dead
Will be there for me to clean my path
And if I die before you I will be there
Waiting for you and clean your path
When I wake up at the Iron Peak”
L’Iron Peak è un posto mitico. Letterario, metaforico, allegorico. Un luogo che rappresenta lo spazio di innalzamento spirituale, un posto da chiamare casa, un posto che è stato tolto dalla società, dai suoi consumi forsennati, dalle sue psicosi. Dàvid Makò riporta l’ascoltatore al Picco di Ferro, attraverso mitologie e leggende del panorama ungherese e transilvano, veicolato dal suo neo-folk intimo e meditabondo, atmosferico, nebbioso ed evanescente. Quello di scuola Eugene Edwards, per intenderci.
Season Of Mist si aggiudica questo intrigante tassello della discografia del progetto The Devil’s Trade, probabilmente l’album migliore dal punto di vista di produzione e di efficacia immediata. Questo, però, senza andare a discapito di un cuore e un’anima che il disco comunque riesce a portarsi dietro. “No Arrival” è un pezzo che riesce a impostare la voce di Makò nelle sue sfaccettature più intriganti, potenti, espressive, di retaggio certamente metallofilo, ma di espressione ormai legata ad un comparto sonoro boschivo, silvestre, ancestrale. Siamo soliti ormai vedere trasformate le sfuriate rumoristiche delle chitarre in qualcosa che tenta di riscoprire le radici culturali di certi territori (quando va bene, sia chiaro) e settarsi su coordinate diverse dalla solita tirata folk/black metal; purtroppo o per fortuna, questo immaginiamo dipenda sempre dalla qualità del materiale presente.
Qui, in “The Call Of The Iron Peak” ci sembra che le cose siano fatte in ottima maniera, e i riverberi delle corde riescono a mantenere un banjo folk di sicuro impatto narrativo, inserito in un’oscurità atmosferica pregna di buio meditativo. Le leggende narrate attraverso le liriche riescono a suggerire un fascino ancora quasi incontaminato che, seppur con i toni consueti – qualcuno direbbe modaioli – di un certo folk, può ancora entusiasmare i giusti spiriti. Il tono del disco rimane quasi il medesimo e riesce comunque a funzionare per i suoi tre quarti d’ora, senza annoiare eccessivamente, ma riuscendo a risultare immersivo ed evocativo al punto giusto. Menzione speciale per la finale titletrack e il suo comparto di cucchiai e brocche, suonati da Adam Vincze, così come l’aspetto più propriamente percussivo dei fratelli Szabò: elementi in grado di donare al brano il canonico climax che suggella appieno un discorso sentito, sia spirituale che fisico, che porta dritti ad un luogo mistico, capace di elevare l’anima, o almeno farla evadere dall’oppressione quotidiana di un mondo troppo moderno. Niente di epico, ma un sincero trip montagnoso e silvestre che può sicuramente dire la sua.
“These songs I have sang feel like all I have left
While the air still has your scent it also smells like death
O my scared heart has forgot how to sing
About love in the rainy breeze those short times of peace”