THE DILLINGER ESCAPE PLAN – Dissociation

Pubblicato il 18/10/2016 da
voto
8.0

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Hanno crivellato i pentagrammi per quasi vent’anni, facendone scaturire musica a cui l’aggettivo ‘impossibile’ era il minimo che si potesse affibbiare. Ora i The Dillinger Escape Plan sfornano “Dissociation” e si sciolgono, non prima di un lungo tour mondiale che fungerà da struggente, distruttivo, addio a una band che ha rivoluzionato il panorama hardcore-metal mondiale. Prima con la pietra miliare “Calculating Infinity”, l’invenzione del math-core, lo sdoganamento del jazz sperimental in un marasma di ritmi irregolari aggrovigliatissimi, grind allucinato, extreme metal ad ampio spettro ed elettronica viziosa; poi, con l’arruolamento di Greg Puciato alla voce, l’avvio di un’altra storia, quella di un combo che ha preso il testimone dei Faith No More e della produzione pattoniana in generale, nelle sue multiformi derivazioni, e ha shakerato malate melodie caramellose tagliate di anfetamine in un mare multiforme di aggressione, avanguardismi arrembanti, carezze intimidatorie, scenari di bellezza incantevole e fuggenti strappi nel caos più pirotecnico. Il sesto e ultimo lascito su lunga distanza lo possiamo interpretare più come un ultimo viaggio dentro se stessi che un’esplorazione di altre forme e universi musicali: quello era già avvenuto, come in “One Of Us Is The Killer” si è trattato di tirare le fila di tutto il meglio che fosse passato per le orecchie dei quattro e incastonarlo in canzoni all’altezza di un nome tanto pregiato com’è quello dei The Dillinger Escape Plan. Tolto il tamarro intermezzo dub-step di “FUGUE”, abbastanza inconcludente, il resto è a dir poco eccellente. Per avere un riassunto esauriente dei contenuti di “Dissociation” partite da “Wanting Not So Much As To”. Nei primi due minuti e mezzo melodie jazz da cartone animato e pop vengono fatte a pezzi da un drumming alternante scariche assassine, groove della durata di un battito di ciglia, tocchetti qua e là sui tamburi, mentre Puciato urla scalmanato e accenna escursioni in toni da sofferto narratore; la seconda parte ribalta la prospettiva, e languide arie accompagnano il lirismo del singer, che si destreggia fra pulito, recitato, voci angeliche, mentre percussioni contenute e flebili effetti ci inghiottono in un’atmosfera di oscuro mistero, con un effetto cinematografico che tende a tornare nel corso dell’album, familiarizzando con le arie dei Fantomas di “Director’s Cut” e col Mike Patton più languidamente cupo. I Dillinger sanno anche affidarsi ad andamenti meno convulsi e allora vale la pena di gustarsi anche la gratificante linearità di “Symptom Of Terminal Illness”, che prende forza da un arpeggio dark e si fa portare per mano dal crooning intenso del singer, snodandosi come un’amara ballata brutalizzata da secche, brevi, rullate grind. Contrasti apparentemente illogici lasciano fiorire deliziose nefandezze come “Low Feels Blvd”, che prima strappa via le carni con sequenze orgiastiche al livello di quelle degli esordi, poi fa sfogare Weinman in un placido assolo, si placa del tutto in una rilassatezza informe ed incolore, la voce pulita e dolcissima a dondolare tranquilla, infine rilascia un finale crudele e apocalittico. La distanza immensa  fra calma estatica e atroce Babele viene azzerata più e più volte, così che “Dissociation” gronda momenti memorabili in abbondanza e quando meno te lo aspetti. “Surrogate” urla lurida come una punk song settantiana rivestita di panico dell’era digitale, vi pressa sotto un groove di granito, ma in un attimo diventa un virtuosismo compito da jazz club, le luci soffuse, una tensione lugubre evocata dal parlato grottesco di Puciato. Anche le arie caraibiche funestate di elettronica sganciate da “Honeysuckle” sono tanto effimere quanto ficcanti, incastonate fra partiture deraglianti, un accenno di swing, l’ennesimo ritornello avant-pop e un senso di grandioso disordine strutturale. “Manufacturing Discontent” e “Apologies Not Included” volteggiano acrobatiche, condensando baraonde strumentali immaginifiche, breakdown ‘alla Dillinger’ e stilettate in pulito tra le più riuscite della carriera. “Nothing To Forget” completa il matrimonio con l’alternative abbinando una pesantezza forse mai cercata con tanta abnegazione a vocalizzi fra il pulito ammiccante e l’urlato capriccioso, regalandoci anche arrangiamenti sinfonici e atmosfere sognanti definibili nulla meno che incantevoli. La title track ci saluta in punta di piedi, mollemente adagiata su un tappeto di pulsante elettronica, che accompagna l’intensa interpretazione vocale in una ninna nanna futurista, unendosi anche stavolta nella seconda parte a malinconici archi. Una pacifica distensione per i nervi, al termine di infiniti giri sulle montagne russe. In “Dissociation” c’è tutto quello che ha garantito ai The Dillinger Escape Plan l’immortalità artistica: velocità forsennate, imprevedibilità, abbinamenti eccentrici, sregolatezza, orecchiabilità, combinazioni ritmiche da capogiro. E classe, magistrale classe. Tutti sotto il palco per il grande addio, il conto alla rovescia verso la dissoluzione è partito, vivetelo con “Dissociation” a tutto volume nelle orecchie.

TRACKLIST

  1. Limerent Death
  2. Symptom Of Terminal Illness
  3. Wanting Not So Much To As To
  4. FUGUE
  5. Low Feels Blvd
  6. Surrogate
  7. Honey Suckle
  8. Manufacturing Discontent
  9. Apologies Not Included
  10. Nothing To Forget
  11. Dissociation
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