7.5
- Band: THE DILLINGER ESCAPE PLAN
- Durata: 00:52:28
- Disponibile dal: 03/08/2004
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Self
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Sui Dillinger Escape Plan si sono riversate negli ultimi anni aspettative che avrebbero spezzato le gambe ai più smaliziati marpioni del music business. L’abito messianico da “salvatori” del (post) hardcore cucito dai media addosso al quintetto del New Jersey all’uscita del notevole “Calculating Infinity” era destinato, nel bene o nel male, a cadere allo svelarsi del potenziale di questo attesissimo secondo album, preceduto, un paio di anni fa, da uno straordinario EP realizzato con Mike Patton. “Miss Machine” scioglie, dunque, la riservatissima prognosi che copriva la reale identità dei DEP (talentuose meteore o “the greatest band the world has ever seen” come profetizza NME?) e lo fa con una certa grazia, lasciando che “Panasonic Youth”, probabilmente il brano più vicino alle sonorità di “Calculating Infinity” presente nel disco, funga da ideale punto di continuità con il passato recente della band. Trascorsi i due minuti abbondanti dell’opening track, il nuovo lavoro dei DEP si apre ad orizzonti inediti, che si manifestano nell’incedere epico del break centrale di “Sunshine The Werewolf” o nella relativa accessibilità del bel ritornello di “Highway Robbery”, salvo poi richiudersi nelle ritmiche epilettiche di “Van Damsel”. Stupisce, molto e positivamente, “Phone Home”, brano che sembra nascere da una rissa tra Trent Reznor ed i Converge e che trova in Greg Pulciato, cantante di spiccata personalità ma di evidente scuola Pattoniana, un ideale cicerone. Non mancano le influenze Faith No More/Mr Bungle anche per quanto riguarda l’aspetto strettamente compositivo di “Miss Machine”, che cita indirettamente i californiani nelle (troppo?) melodiche “Setting Fire To Sleeping Giants” e “Unretrofied”, mostrando in quest’ultima una ricerca di immediatezza che non reputavamo essere in possesso dei DEP. La volontà di “auto-smitizzazione” sembra manifesta, la tendenza ad affermare un’identità artistica strettamente individuale, il bisogno di non essere messi a capo di alcun “rinascimento” né, più prosaicamente, di alcuna scena, traspaiono dalla contrapposizione a volte stridente di soluzioni compositive di inaspettata efficacia “commerciale” e fughe post grind che riportano a “Calculating Infinity” senza riuscire a bissarne sempre l’incisività. Non che manchi la coesione ai brani di “Miss Machine”, che, anzi, sembrano impregnati della stessa atmosfera di lucida aggressione; piuttosto ci si trova spesso di fronte alla sensazione sgradevole di ascoltare composizioni in cui non tutto è indispensabile. Imperfetti, dunque, come li volevamo e come li aspettavamo. Il mondo ha perso una band di menti illuminate ed ha trovato degli ottimi, straordinariamente ispirati ed altrettanto umani, musicisti. Per fortuna, aggiungiamo noi.