8.5
- Band: THE HAUNTED
- Durata: 00:41:01
- Disponibile dal: 23/06/1998
- Etichetta:
- Earache
- Distributore: Self
Spotify:
Apple Music:
Nel metal, un po’ tra il serio e il faceto, si suol dire che il primo album è sempre il più bello. Se questa boutade il più delle volte viene poi smentita dai fatti, nel caso dei The Haunted e del loro omonimo album di debutto è pura e semplice verità. A onor del vero, questo è un debutto giusto sulla carta, dato che i componenti della band non sono propriamente dei baldi giovani sconosciuti e spuntati dal nulla: parliamo dei fratelli Björler al basso e alla chitarra e Adrian Erlandsson seduto dietro alle pelli, tutti quanti provenienti dagli appena sciolti At The Gates, che peraltro avevano chiuso (all’epoca) la loro carriera con un album di valore assoluto del metal estremo che porta il nome di “Slaughter Of The Soul”. A completare la line-up di ‘questi’ The Haunted, troviamo il secondo chitarrista Patrick Jensen, che aveva appena formato anche i Witchery, e infine sì, praticamente un semi-sconosciuto dietro al microfono, Peter Dolving (ex-Mary Beats Jane). Quest’ultimo però si rivela immediatamente la vera ciliegina sulla torta, un talento grezzo (e incontrollabile, specie caratterialmente) in grado di aggiungere ulteriore valore a una formazione di fuoriclasse. Ma andiamo con ordine. Correva l’anno 1998, un periodo non proprio d’oro per il thrash metal: gli Slayer proprio nello stesso anno uscirono con un disco quale “Diabolus In Musica”, non proprio il lavoro più apprezzato dai fan di vecchia data di Araya e soci; l’ultimo capitolo in studio dei Sepultura ai tempi era stato “Roots”, un disco fortemente influenzato dal nu-metal, che in quel periodo era ancora il genere più in voga per le masse; i Metallica ormai erano dati per dispersi nel mainstream tra “Load” e “Re-Load”… Insomma, non sembrava esserci più nessuno che in questo genere, il thrash, fosse disposto a pigiare con violenza e determinazione il piede sull’acceleratore. I The Haunted, oggettivamente, in quel momento non avevano nulla da perdere: gli At The Gates ormai erano acqua passata e non rimaneva altro da fare che rimboccarsi le maniche, ricominciare da zero e fare un disco genuino e divertente, terribilmente rabbioso e adrenalinico, e poi quel che verrà verrà. E “The Haunted” è proprio un album di questo genere, fatto senza troppi fronzoli, senza ricerche ossessive di personalità e originalità. Già, perché non c’è nulla di realmente nuovo o sconvolgente in questo platter, che da un lato sembra il naturale proseguimento artistico di “Slaughter Of The Soul” e dall’altro, forse, sarebbe stato il degno successore dell’album di cover – dal sapore hardcore – degli Slayer, “Undisputed Attitude”. “The Haunted” è il disco giusto nel momento giusto e, guarda caso, poco tempo dopo iniziarono a emettere i primi vagiti formazioni come Soilwork (praticamente coevi ai The Haunted) e Darkane, e in seguito nacquero ancora altri gruppi, tipo gli Hatesphere, che scriveranno intere discografie prendendo spunto dai brani di questo full length. Il songwriting di questo esordio è incredibilmente ispirato, sfrontato nel suo essere energico, adrenalinico e incontrollato. I pezzi ad un primissimo ascolto possono sembrare basati su un continuo e banale uptempo, ma ovviamente è solo con il passare delle fruizioni che ci si accorge che sono i particolari a fare la differenza. Le canzoni sono sì basate – come in effetti vuole la tradizione slayeriana e svedese – su una ritmica forsennata, ma gli stacchi, i rallentamenti cadenzati e le ripartenze che spesso caratterizzano i singoli pezzi sono letteralmente da cardiopalma. Troviamo poi un tessuto melodico di riff intrecciati con precisione chirurgica in maniera quasi maniacale, che dona ai brani un respiro accessibile e persino memorizzabile. Diciamo che l’ascoltatore viene avvolto da una valanga di input che tendono a mettere confusione, ma presto troverà dei punti di riferimento, magari anche in maniera inconscia, che finiranno per fondersi nel tessuto cerebrale, salvo poi rimanerci incastrati per anni, forse per sempre, ed emergere poi di tanto in tanto nei momenti più inaspettati. E poi troviamo una quantità di groove degna di certi Pantera: vi basti sentire un brano come “Now You Know” per capire di cosa parliamo. Potremmo anche non soffermarci sugli assoli, anch’essi slayeriani, ma non possiamo non ritornare a parlare del valore che un vocalist come Peter Dolving dona ai brani: le sue urla indomabili sono qualcosa di animalesco, con il suo modo frenetico di sbraitare spoken vocals. Attenzione, poi, perché Dolving non è solo un ‘semplice’ urlatore, ma un cantante in grado di dar vita a ritornelli particolarissimi senza mai ricorrere ad una vera e propria voce pulita. Pezzi come “In Vein”, “Blood Rust”, “Three Times” non hanno bisogno di particolari spiegazioni, sono brani che probabilmente nessun altro vocalist sarebbe in grado di cantare in quella precisa maniera, con quel modo strozzato e sull’orlo di una crisi di nervi. Quando parliamo infine dei pezzi migliori di questo disco non possiamo non menzionare quello che è probabilmente il manifesto di questa band: stiamo parlando ovviamente di “Hate Song”, tre minuti esatti di furia cieca e incontrollata, tre minuti di odio puro in forma di musica, dove troviamo tutti gli elementi peculiari di cui abbiamo blaterato fino ad ora, ovvero il groove, la velocità, la melodia e una sorta di refrain melodico che ne fanno un pezzo che in sede live i Nostri non mancano mai di riproporre e che regolarmente scatena un putiferio tra le prime file del pubblico. Certamente se un disco del genere ci fosse capitato da recensire ai tempi della sua uscita, lo avremmo valutato in maniera più che positiva, ma forse non così entusiastica. Ma proprio il fatto che oggi, a più di quindici anni dalla sua release, ne siamo ancora così tanto innamorati, ci porta ad aggiungere almeno mezzo punto alla valutazione finale, soprattutto visto il particolare momento in cui arrivò.