8.5
- Band: THE HELLACOPTERS
- Durata: 00:57:11
- Disponibile dal: 01/06/1996
- Etichetta:
- White Jazz Records
Spotify:
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Col senno di poi verrebbe da dire che le arie death&roll di “Wolverine Blues” potevano essere segnale di una certa inquietudine rockettara che si stava facendo largo nel (non solamente lui) batterista degli Entombed; tra i padrini del death metal europeo e comunque figura fondamentale e tra le più centrali dell’intera scena estrema scandinava, Nicke Andersson difatti mette mano alla chitarra e al microfono per fondare i The Hellacopters quando ancora sedeva dietro dietro le pelli degli autori di “Left Hand Path”. Formatasi, nelle intenzioni, come side project votato al rock&roll ad opera di Andersson e Dregen (all’epoca in pausa dai Backyard Babies, dei quali era chitarrista, e dai quali tornerà a tempo pieno dopo “Payin’ The Dues”), la band divenne poi la mansione principale dei due, ai quali si erano intanto aggregati Kenny Håkansson al basso e il già roadie degli Entombed Robert Eriksson alla batteria. Dopo un paio di singoli e una sessione in studio di ventisei ore scarse, vide la luce in un lampo e praticamente dal vivo, nel 1996, quello che sarà il debutto dei The Hellacopters!
Ciò che ne venne fuori è una cruda rasoiata di garage rock, punk e hard rock, che attinge a piene mani dal suono di MC5, Motörhead e Ramones, non senza l’ombra dei Kiss a fare da sfondo – nome tra i più importanti nella formazione di quasi tutti gli esponenti del metal estremo scandinavo -, palpitazioni metalliche insite soprattutto in questo primo lavoro e nel successivo “Payin’ The Dues”, e i mai troppo citati Hanoi Rocks, che influenzeranno in particolare il percorso dei Nostri dal terzo disco in poi. Sporco quanto basta, “Supershitty To The Max!” è una pietra grezza che trasuda passione stradaiola, che spreme, fino a vederne il succo, ogni esigenza espressiva dei quattro tramite esplosioni di chitarre (ben bilanciate dai due axe-men, che per tutto il disco saranno autori di prove eccellenti, tra riff e assoli affilatissimi) e una sezione ritmica palpitante e inarrestabile, senza dimenticare il fondamentale e riconoscibile apporto del piano di Anders ‘Boba Fett’ Lindström, già nei Diamond Dogs, fondamentale dettaglio dell’Hellacopters sound.
Tredici brani, tredici manate in faccia: dalla opener “(Gotta Get Some Action) NOW!” passando per la lemmyana “24h Hell”, tra inni punk alla “Bore Me” o la cadenzata e quasi bluesy “TAB”, il disco è una giostra di giri di chitarra, vocals distorte, cuori borchiati da punk anni ’70 ma con dettagli ben curati, accelerazioni e spacconate rockettare, in un mix che arriverà a fruttare, ai quattro, anche la vittoria di un Grammy svedese. Sarebbe inutile sviscerare il disco traccia per traccia: vi consigliamo invece di procurarvelo e ascoltarlo per intero, vista l’energica compattezza nella quale sono racchiuse queste piccole tredici fucilate, che assieme formano un cubo di energia raramente riproducibile. È nel futuro che i The Hellacopters si apriranno a quello che è il loro sound divenuto classico – con lavori più ragionati e meno esasperati, più improntati ad un canonico hard rock, come “High Visibility” o il forse un po’ sottovalutato “By The Grace Of God” – ma è qui che si respira la scintilla di follia e genialità, lo scatto, la miccia innescatasi con uno scatto improvviso e micidiale. Una delle lezioni principali del garage rock revival europeo e tra gli apripista di tutta una scena scandinava che ha generato centinaia di ottimi proseliti, per un album che anche il metallaro più incallito non può fare a meno di apprezzare.
“Hell… Hell’s exactly what they raised!”