6.5
- Band: THE LION’S DAUGHTER
- Durata: 00:42:03
- Disponibile dal: 09/04/2021
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
Se il precedente “Future Cult” sembrava essere stato scritto nell’ottica di una revisione sludge/black metal delle suggestioni horror anni ’70, questo nuovo lavoro dei The Lion’s Daughter vira di più verso atmosfere alla Hitchcok o alla Brian DePalma, come comunica la band stessa nell’allegato promozionale al loro quarto full-length. Intendiamoci, non che l’oscurità sia svanita, anzi, ma in effetti l’atmosfera è sintetica, soffocante, fatta di luci al neon e sintetizzatori, che nella musica del trio sembrano aver preso sempre più piede. Una componente quasi più industriale va a farsi strada a fianco della struttura tipicamente sludge degli americani, benché diventi difficile fare grossi confronti con altre band, e come dichiarato da Rick Giordano stesso (chitarrista e vocalist del gruppo), la musica è fluita in maniera automatica, senza ragionare troppo sull’impatto o sul risultato finale, bensì semplicemente dando spazio, nella scrittura dei brani, ai synth e a un approccio decisamente più pop rispetto al passato, inteso unicamente come base di strutturazione dei brani. La componente black a nostro avviso è praticamente svanita, dando più spazio magari ad un death metal fortemente connotato dall’esperienza sludge/synth, pur tuttavia lasciando buoni margini di manovra anche alle sei corde e a delle ritmiche in alcuni casi davvero incontrollate (come ad esempio in “Werewolf Hospital”) e altri più sperimentali (“Sex Trap”, “Snakeface” o la title-track), con sporadici utilizzi di una voce più ‘pulita’. Eccoci dunque passare dalle atmosfere di un Mario Bava a quelle più decadenti di una Times Square dopo mezzanotte, tra offerte viziose e luci colorate delle insegne, in un viaggio di tre quarti d’ora dove tra momenti più riusciti e altri un po’ più faticosi riusciamo comunque a cogliere le intenzioni dei The Lion’s Daughter. Si sente del resto un fuoco divampare dalla necessità espressiva del terzetto, anche se non tutti i brani sono così memorabili.
In sostanza “Skin Show” è un disco riuscito ma nel quale si tentano anche soluzioni da affinare; nel suo slegarsi totalmente dalla tradizione costruitasi in quasi una quindicina d’anni, segna un solco nel percorso di una band comunque piuttosto eclettica e coraggiosa nel proprio continuo rinnovarsi, abbandonando certe pesantezze e acquisendone altre più astratte che prettamente musicali. Forse meno d’impatto del precedente, ma comunque godibile.