8.0
- Band: THE MAGIK WAY
- Durata: 00:46:56
- Disponibile dal: 11/12/2020
- Etichetta:
- My Kingdom Music
- Distributore: Audioglobe
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Sangue e Stramonio, Salamandre e Sacrifici… sono solo alcune delle suggestioni che percorrono questo album, e perdonateci se abbiamo fatto ricorso a una banale allitterazione per darvi un’idea delle ‘immagini’ che le tracce qui presenti dipingono all’ascolto. “Il Rinato” è un disco che non ha mai esplosioni elettriche, ma non per questo non farà la gioia dei metallari più curiosi, e anche più colti, visti i numerosi riferimenti al percorso alchemico e all’Ordine della Terra cui la band stessa afferisce.
Nella prevalenza di sonorità acustiche, sposate a testi che sono insieme poesia e rituali musicati, The Magik Way arriva a proporre una sorta di neofolk, molto più folk (se passate il gioco di parole) che marziale, con un’intensità che in Italia pochi posso vantare, forse Mauro Berchi e i suoi Canaan; questa potenza espressiva è a volte lancinante, e fa pensare anche a un’altra eccellenza italiana, per quanto ben distante dal mondo metal. Possiamo dire senza tema di smentita che la band di Nequam e compari è l’unica a raccogliere credibilmente la visionarietà appassionata dei CSI (“La Giaculatoria Del Doppio”), anche nell’evidente legame con la terra e le radici culturali da cui sboccia il loro Opus. Restiamo sempre in ambito italiano con i paragoni, se non musicali, sensoriali – e del resto “Il Rinato” è un disco che nasce sinestetico e ricco di percezioni ‘altre’ in modo quasi spontaneo. Immaginate una versione meno parossistica e al tempo stesso più occulta del Capossela che – tra un “Ballo di San Vito” e “Ovunque Proteggi” – riportava a galla i riti insieme cristiani e pagani del Sud Italia vestito di pelli; ecco, qui The Magik Way riescono a farci respirare appieno l’atmosfera di sagre che, al calare del tramonto, si trasformano in baccanali segreti nei campi e nelle grotte appena fuori dai borghi, chiudendo non a caso il disco con l’ipnotica ed esplicita “La Processione”.
A parte le chitarre acustiche e i ricchi passaggi di percussioni e affini (sono tanti gli strumenti qui usati o riprodotti, peraltro con sonorità dall’efficace resa analogica), il basso e il contrabbasso sono il cuore pulsante di un lavoro emotivamente potente, delicato e insieme intenso, che nella sua omogeneità narrativa offre comunque momenti e spunti variegati. “In Igne Vivit Salamandra” è un sublime momento di catarsi retto da un’orchestrazione sequenziale che unisce archi, shekere (o qualcosa di simile) e un impianto acustico evocativo; ancora, la titletrack è un’esplosione panica, dove si sovrappongono come in una gironda esaltata voci maschili e femminili, tra janare e bardi. Citiamo infine “Il Sacro Dolore”, il brano più straziante ed emozionante, con il suono delle campane a morto a completare il tratteggio di un disco quasi cinematografico nella sua ricchezza. Togliete i paraocchi, indossate delle maschere rituali e fate vostro questo disco.