5.0
- Band: THE PRIVATEER
- Durata: 00:53:11
- Disponibile dal: 26/07/2017
- Etichetta:
- Noiseart Records
- Distributore: Audioglobe
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Come fondo una band ‘pirate metal’ oggi? Facile, basta vestirsi da pirati, avere un violino e due chitarristi, imitare i grandi capisaldi del genere e condire il tutto con una spruzzata di growl per sembrare originali. E invece no, cari i nostri The Privateer: non basta fare un copia-incolla delle cose migliori di altre band per sembrare caratteristici e soprattutto appetibili in un mondo di squali come quello del folk. La marmaglia torna sulle scene dopo il precedente “Monolith”, risalente al 2013; ma se si sperava in una risalita dai fondali, questa è solo l’ennesima ancora che tira la band sul fondo dell’oceano. La passerella è già pronta ad accoglierli quando attaccano con “Where Fables Are Made”, che se all’inizio può sembrare interessante per il violino viene rovinata prima da una pallida imitazione degli Alestorm, poi condita con il succitato growl e un coro che invece richiama un certo folk nordico. Una accozzaglia di materiale che resterà la costante di tutto l’album: non si capisce mai se la band voglia fare viking, folk, power o altri generi, ammazzando completamente anche il buon lavoro di Christian Spöri e Roman Willaredt alle chitarre. Perché, diciamolo, “The Goldsteen Lay” è suonato bene in più punti, considerato anche il tempo che la band ha trascorso insieme negli anni, ma è un disco piatto e vuoto che non dice assolutamnente nulla di nuovo, con la logica conseguenza che il tutto diventa noioso e pesante come una palla di cannone. Consideriamo anche che spesso e volentieri le canzoni sforano i cinque minuti e che si somigliano drammaticamente tra di loro: vi basterebbe ascoltare “Survival Of The Quickest” o “Arrival” per avere una chiara idea di tutto il disco, con una formula che è sempre la stessa dove gli strumenti si alternano ma senza nulla di nuovo all’orizzonte, come se fossimo incagliati nel Triangolo delle Bermuda. Le bozze per poter creare qualcosa di buono, in realtà, si avvertono in alcuni punti come ad esempio quando attacca il blastbeat di Kim Fritz oppure quando a metà di alcune canzoni ci sono degli stacchi acustici, come nella seconda “Draft Of The Strange”, con un coro che quantomeno alza il livello delle composizioni. Per il resto non ci siamo proprio: la voce di Pablo Heist, soprattutto, risulta essere in più punti solamente fastidiosa anziché esaltante, con uno scream molto spesso fuori luogo che fa venire voglia di ubriacarsi a grog per dimenticare. La conclusione di questa recensione è che i The Privateer dovrebbero stare più attenti a comporre che ad apparire, perché costruirsi una immagine di un certo tipo è inutile se dietro non hai una solida base musicale su cui contare. Manca proprio l’ispirazione in questo lavoro che, se vogliamo, sembra uno di quei film trash fantasy di serie B che affollano siti di streaming di pessimo gusto (vi ricordate la saga di ‘In The Name Of The King’?), avendo una configurazione troppo impegnata a ‘suonare e basta’ che a trovare uno stile personale che permetterebbe alla band di cominciare a farsi notare un po’ di più anche fuori dalla Germania.