8.0
- Band: THE RUINS OF BEVERAST
- Durata: 01:09:26
- Disponibile dal: 05/02/2021
- Etichetta:
- Ván Records
- Distributore: Audioglobe
È un universo contraddittorio e lungi dal percorrere vie facili o scontate, quello dei The Ruins of Beverast, ma al tempo stesso coerente con la propria estetica e le scelte intraprese nel corso degli anni. Un amalgama di suoni e suggestioni che, a partire dall’ormai lontano “Unlock the Shrine” (2004), non ha mai avuto il timore di alzare l’asticella dell’apertura mentale e dell’imprevedibilità incalzato da una naturale propensione per il gotico, la quale si è puntualmente tenuta a debita distanza dai barocchismi di molti colleghi appassionati di arie languide e decadenti. Parole che oggi, dopo le sinfonie eretiche di “Blood Vaults” e la trance sciamanica di “Exuvia”, dischi che hanno definitivamente lanciato la creatura di Alexander von Meilenwald ai vertici del circuito underground più elegante e ricercato, trovano nuove conferme in quella che può legittimamente fregiarsi del titolo di opera onnicomprensiva, oltre che di melodica nell’accezione più pura e orecchiabile del termine.
Partendo come sempre da un solido retaggio black-death e doom, il cantante/polistrumentista tedesco diventa l’officiante di un rituale sonoro che – forse mai come in questo momento – intende scardinare le certezze insite nel cuore dell’ascoltatore, stregandolo con una lunga carrellata di soluzioni provenienti direttamente dagli Eighties più torbidi e viziosi, fra richiami all’esoterismo di Fields of the Nephilim e Killing Joke e digressioni anche molto immediate in odore di Type O Negative. Echi musicali che nel corso degli ultimi anni abbiamo visto affacciarsi con una certa frequenza alle soglie del metal estremo, dai Behemoth ai Blaze of Perdition, passando per i connazionali Secrets of the Moon (il cui chitarrista, Michael Zech, è ormai parte integrante della line-up dal vivo dei Nostri), ma che nei solchi di “The Thule Grimoires” spiccano ulteriormente per la loro naturalezza e la personalità con cui vengono manipolati dalla voce e dagli strumenti, alla stregua appunto di quelli più tipicamente ‘The Ruins of Beverast’. Composizioni come sempre lunghissime che possono partire sia da una goccia, la quale si trasforma poi in uno scrosciare di acqua scura nell’alveo di un songwriting tmultuoso, sia da un muro di suono ottenebrante e avvolgente, una bruma spirata da una dimensione mistica e fuori dal tempo, nell’ottica di una varietà di stili che dimostra di non essersi affatto dimenticata i ritmi tribali della precedente fatica o le atmosfere magiche di una vecchia ‘hit’ come “Malefica”.
Un’opera che – ancora una volta – necessita di passione e dedizione per essere assimilata in ogni suo elemento, eppure comunicativa come nessun’altra nella carriera della one-man band teutonica, frutto di una capacità di scrittura esemplare e pressoché invidiabile. Inutile, arrivati a questo punto, menzionare un brano piuttosto che un altro; possiamo solo consigliarvi di abbassare le luci, premere il tasto ‘play’ sulla monumentale opener “Ropes Into Eden” e abbandonarvi al flusso di emozioni che seguirà di lì a poco.