5.5
- Band: THE SILENT RAGE
- Durata: 00:58:04
- Disponibile dal: 26/05/2023
- Etichetta:
- Scarlet Records
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Proprio in questi giorni il versante power ellenico è balzato agli onori della cronaca metal per l’esplosione dei Sacred Outcry e del loro nuovissimo “Towers Of Gold”, secondo full-length prodotto dalla band del Pireo dopo la ripresa delle attività avvenuta nel 2015, attestando un ritorno sulla scena a dir poco efficace.
Analoga situazione, se vogliamo, è quella messa in piedi dai The Silent Rage, attivi da quasi due decenni ma anch’essi reduci da un solo album pubblicato. Connazionali e conterranei dei Sacred Outcry, il quintetto dell’Attica si è quindi rimesso in moto con il qui presente “Nuances Of Life”: power sì ma più roccioso e pesante, lasciando che strali heavy e thrash facciano tranquillamente breccia all’interno degli undici brani presenti, chiamando in causa band quali Iced Earth, Brainstorm e Jag Panzer se non addirittura act più estremi, come i Testament.
I risultati purtroppo, continuando questa sorta di sfida parallela, non ricalcano quelli ottenuti dai colleghi: nonostante una produzione più che buona, nonostante la possanza e l’impeto attitudinale presente in ogni traccia, oltre alla bravura dei cinque interpreti, capeggiati dal vocalist Michalis Rinakakis, il lavoro dei The Silent Rage pecca in quello che dovrebbe essere uno dei tasselli principali sul piano della riuscita o meno di un disco, e cioè la varietà dei singoli episodi.
Tracciato il solco d’acciaio con l’opener “The Serpent Lord”, infatti, l’album prende immediatamente una piega fin troppo statica, soprattutto a livello ritmico, dove neppure la perentoria ugola dello stesso Rinakakis riesce a donare un brio più variegato, rimanendo anch’egli piegato all’immobilismo strumentale dei vari pezzi (“The Man In The Mirror” e “Exhaling Fear” tanto per fare due esempi). Si parlava di Jag Panzer qualche riga fa ed ecco che in “Scarlet Dawn” troviamo pure Harry ‘The Tyrant’ Conklin, frontman della band statunitense, a cercare di dare una spallata alla stagnante sensazione di fondo; questa immobilità è inoltre ancor più evidente nella ballad “Black Monday”, tanto lunga quanto prolissa e ridondante.
Tentativi di mutamento al canovaccio principale subentrano qua e là (“Another Fallen Dreamland” e la title-track), senza però rimettere in carreggiata una prestazione sì lodevole dal punto di vista tecnico, ma decisamente povera in fatto di vivacità.
