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7.0
- Band: THE TANGENT
- Durata: 00:56:56
- Disponibile dal: 16/11/2018
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Sony
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Fieri esponenti di quel neoprogressive romantico e nostalgico dei fasti degli anni Settanta, i The Tangent raggiungono oggi l’invidiabile traguardo del decimo album in studio. “The Proxy” conferma in gran parte lo stile della band di Andy Tillison, provando, però, ad allargare suoi orizzonti, incorporando anche influenze provenienti dalle decadi successive all’età dell’oro del prog rock.
L’apertura del disco, in realtà, è abbastanza standard: una classica suite di quindici minuti influenzata dalla scena di Canterbury, dai Caravan agli Hatfield And The North. Partiture maestose, innesti jazz e un gusto per gli intrecci strumentali che fanno la gioia degli amanti del genere, pur senza portare un vero e proprio contributo in termini di personalità.
Più interessante, invece, “The Melting Andalusian Sky”, composizione strumentale bagnata dal sole del Mediterraneo, che gioca con la sensualità del piano e della chitarra flamenco, bilanciando bene la classe dei musicisti coinvolti con quella misura che troppo spesso si va a perdere in progetti come questo.
Le vere novità, però, si palesano con le due composizioni successive. La prima, “A Case Of Misplaced Optimism”, viene descritta dallo stesso Tillson come un ipotetico punto di incontro tra i Porcupine Tree e Jamiroquai, accostamento ardito ma tutto sommato accurato, per una sorta di acid-prog-funk che si regge sulle sue gambe senza traballare. La seconda composizione, invece, è la lunga “The Adulthood Lie” che osa ancora di più, integrando nella trama strumentale una forte componente elettronica. Il tentativo è, almeno nelle intenzioni, lodevole, tuttavia ci sembra che la realizzazione non sia ancora perfettamente a fuoco: Tillison, infatti, sembra ispirarsi non tanto alla contemporaneaità, quanto piuttosto ad un retaggio degli anni Ottanta e Novanta, dando ancora una volta una connotazione retrò a qualcosa che, forse, non voleva esserlo.
Chiude il disco “Supper’s Off”, un brano che risponde più ad un’urgenza comunicativa che musicale: Tillison costruisce la canzone intorno ad un proclama, declamato e non cantato; un monologo che mette a confronto la società degli anni Settanta con quella odierna, che sembra al tempo stesso voler vivere costantemente in un nostalgico passato e, tuttavia, tradisce gli ideali di quel decennio. Non è un caso, quindi, la citazione dei Genesis nel titolo, come se Tillison volesse idealmente sancire la fine di quel banchetto rappresentato dalla leggendaria suite di “Foxtrot”. Il risultato finale, però, non è esaltante: musicalmente il pezzo non brilla e anche l’invettiva suona un po’ come quei generici ‘ah, signora mia, ai miei tempi…’, che lasciano il tempo che trovano.
Ad ogni modo, abbiamo a che fare con un disco di buona fattura, con buoni spunti e, soprattutto, con qualche tentativo coraggioso di sganciarsi dalla formula rodata espressa nel primo brano. E questo, in fondo, è di molto preferibile all’immobilismo più totale che attanaglia questo filone del prog rock, anche a costo di qualche scivolone.