6.5
- Band: THE WILDHEARTS
- Durata: 00:35:36
- Disponibile dal: 31/08/2009
- Etichetta:
- Backstage Alliance
- Distributore: Cargo
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Tornano al disco di materiale originale i Wildhearts, poliedrico gruppo capitanato da Ginger che ha sempre saputo interpretare in modo originale l’accoppiata melodia-impatto. L’ultimo nato segue infatti un disco di sole cover dell’anno scorso, a dire il vero passato abbastanza inosservato, ma che probabilmente voleva divertire e soddisfare più la band stessa che il pubblico. Il tutto è stato registrato in Danimarca sotto la supervisione di Jacob Hansen (Volbeat, The Bronx, The Storm tra gli altri) e la mano del produttore si fa sentire notevolmente nell’economia sonora dell’album. Aggiungete che i nostri anche questa volta hanno tenuto fede alla norma che li contraddistingue, ovvero di non ripetere mai lo stesso disco, ed avrete un’idea delle novità in casa Wildhearts. “Chutzpah!”, infatti, prova a concentrare nei canonici tre minuti e mezzo della canzone pop ogni tratto della scrittura della band, condensando quanto in dischi precedenti trovava spazio in pezzi anche di sette-otto minuti. Il tutto con la già indicata operazione di aggiornamento sonoro di Hansen, che fa suonare le chitarre mai così potenti e rende le parti corali, da sempre pallino del gruppo, veramente irresistibili. Ad onor del vero, non sempre il risultato è soddisfacente: brani come “The Jackson White” e “Plastic Jebus”, la prima quasi un mantra elettrico ipervitaminizzato nel classico stile Wildhearts, la seconda ancora potentissima ma con qualcosa che ricorda Spineshank, Adema e Orgy, ricevono il massimo dei voti mentre altri come “The Only One” e” John of Violence”, con un assolo rubato ai Killers ed un finale che riporta ad “Endless, Nameless” non riescono a decollare ed a trovare la giusta direzione per colpire. “You Are Proof That Not All Women Are Insane” mette in luce le straordinarie armonie vocali che i nostri da sempre riescono ad escogitare, non per niente indicati ad inizio carriera come il più credibile incrocio tra Beatles e Metallica, e si conclude con una coda biascicata tra litanie proto-indiane e post-punk. Sembra invece di sentire proprio i Metallica nel riff di “Tim Smith”, a cui fa da contraltare esemplificativamente dopo il ritornello un intermezzo a metà strada tra Queen e Beatles. Da qui alla fine del disco nessuna ulteriore impennata, con quattro brani che ripropongono la nuova formula scelta dei quattro inglesi con piccole variazioni: “Low Energy Vortex”, che sembra un tormentone estivo,”You Took the Sunshine from New York” e “Mazel Tov Cocktail”. Solo la conclusiva “Chutzpah” rompe lo schema: aggiunge un velo di elettronica e sembra riportare a cose fatte in passato. Sono dovuti almeno due paia di ascolti per cogliere tutte le sfumature di ogni pezzo, ma il nuovo corso non convince appieno. Troppo particolari le armonie e la costruzione dei pezzi tipiche dei Wildhearts per ridurle ed inscatolarle in contenitori di tre minuti e mezzo, per quanto bella e decorata sia la confezione. A volte procedere per sottrazione è servito a portare allo scoperto l’essenza delle composizioni di un gruppo, ma questa volta serve al contrario a dimostrare che la qualità principale di Ginger e soci non è la sintesi, ma il saper intrecciare ottimamente accordi, temi e melodie apparentemente alieni gli uni agli altri e farli diventare canzoni di senso compiuto meglio della maggior parte delle altre band. Ragazzi, tornate a farlo!