7.5
- Band: THE WINERY DOGS
- Durata: 01:06:12
- Disponibile dal: 02/10/2015
- Etichetta:
- earMusic
- Distributore: Edel
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“Hot Streak”… un titolo un programma, potremmo dire! Questa simpatica allocuzione infatti si potrebbe tradurre grosso modo come ‘momento fortunato’, e in effetti siamo piuttosto tranquilli nel confermare che la positività espressa da questo titolo ben si riflette nella musica contenuta nel secondo album dei The Winery Dogs. Mike Portnoy (Dream Theater), Billy Sheehan (Mr. Big) e Richie Kotzen si ripresentano infatti a noi a due anni di distanza dall’acclamato omonimo debutto ancora più carichi di prima, forti di un approccio e di idee per lo più invariate, ma aiutati nel compito di catturare l’attenzione dell’ascoltatore da un’alchimia e un’intesa maggiori. Il classic hard rock di estrazione Hendrixiana da loro proposto è rimasto quindi quasi del tutto inalterato, quello che si nota però è che in linea generale il sound dei The Winery Digs sembra essersi arricchito di elementi che denotano un’accresciuta attenzione alla tecnica strumentale. Sono infatti di più gli attacchi strumentali ad alta difficoltà esecutiva, così come risultano accresciuti anche i vari passaggi strumentali che, pur non uscendo dai confini del genere, si sporcano anche un po’ (leggermente) di un sapore quasi progressivo. Un opener come la frizzante “Oblivion” ce la dice lunga su questa teoria: l’adrenalinico inizio affidato a un energico attacco di chitarra in unisono con basso e percussioni è infatti quasi ascrivibile a un qualsiasi disco dei Dream Theater senza che si sollevino troppe proteste. Non c’è timore però per i fan dell’hard rock che condì così piacevolente il debutto del 2013: l’elemento trainante di questa canzone così come delle successive rimarrà comunque e sempre la melodia, ben sottolineata dalla voce sporca e bluesy di Kotzen. La successiva “Captain Love” rimette subito le cose a posto dal punto di vista delle fonti di ispirazione, grazie a tempi meno forsennati e un suono di chitarra più addomesticato che ci può ricordare tanto i Voodoo Circle di Beyrodt quando gli svedesi Graveyard col loro retro-rock che tanti consensi sta raccogliendo in questo periodo. La title-track “Hot Streak” prosegue invece sulla strada del maggior tecnicismo strumentale: i ritmi spezzati della batteria di Portnoy su questo asimmetrico pezzo rock sono infatti degni della sua rinomata capacità percussiva, mentre il basso di Sheehan, così squisitamente funky nell’impostazione ci mostra un musicista in deciso stato di grazia. E’ sempre Sheehan a reggere le sorti del brano successivo, la groovy “How Long” che tanto ci ricorda gli ultimi Mr. Big, mentre il genio di Kotzen emerge nelle rapide svisate di chitarra che ascoltiamo sulle note della successiva “Empire”, brano di una certa lunghezza tra l’altro che sfora la barriera dei sei minuti di lunghezza. Come si è potuto osservare finora, anche se il palco tenda a essere affidato ora a un musicista ora all’altro, non possiamo certo dire che qualcuno dei tre rimanga messo in ombra: se magari su un brano a stupirci è la vocalità calda o l’estro solista di Kotzen (“Fire”, nella quale il Nostro impugna con ottimi risultati anche la chitarra dalle corde in nylon), sul successivo l’asso nella manica può essere l’arrogante basso di Sheehan (spaziale l’attacco su “The Bridge”), oppure il drumming particolarmente fantasioso e groovy di Mike, straripante sull’arrembante “Ghost Town”. E’ chiaro da questa breve disamina che sull’aspetto tecnico della band sia presente adesso una ‘mano’ maggiore, sia nello shredding di Kotzen che nelle prestazioni di Sheehan e Portnoy, ma come sempre a sbalordirci e a convincerci è come i tre vecchi volponi riescano a farci sembrare tutto semplice, mettendo in luce sempre l’aspetto più melodico e catchy di ogni brano. Tecnica e melodia assieme… che dire, i The Winery Dogs sembrano aver trovato il modo giusto per fonderli perfettamente!