7.0
- Band: THEATRES DES VAMPIRES
- Durata: 00:45:17
- Disponibile dal: 02/05/2008
- Etichetta:
- Aural Music
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
Hanno ormai poco o nulla a che spartire con il black metal, i nostrani Theatres Des Vampires. Anche il concept vampirico e le relative atmosfere grandguignolesche di cui i nostri erano orgogliosi alfieri sin dai primi anni ’90 sono stati col tempo accantonati. Del resto, lo split con Lord Vampyr e la conseguente promozione di Sonya Scarlet a unica cantante non poteva non comportare delle modifiche al sound della band. Già “Pleasure And Pain” aveva lanciato dei segnali importanti, ma è con questo nuovo “Anima Noir” che il quintetto si getta definitivamente in avanti, abbracciando a pieno un gothic rock/metal moderno e dalle spiccate influenze electro. Fermo restando che tanti spunti qui proposti devono molto in primis a vecchie glorie della scena goth come i Sisters Of Mercy, i nomi che vengono più alla mente durante l’ascolto dell’album sono senza dubbio gli ultimi Evereve, i Crematory più catchy o i Paradise Lost di “Symbol Of Life”. Le tastiere hanno oggi un ruolo di primaria importanza nell’economia del sound del gruppo, visto che disegnano la quasi totalità delle melodie e dettano i tempi dei vari cambi di atmosfera all’interno dei pezzi. Non va inoltre sottovalutata la performance dell’onnipresente Sonya Scarlet, spessissimo su registri prettamente pop, ma, all’occasione, in grado anche di maneggiare con abilità tonalità più vicine al goth o all’opera. Tastiere e voci sono dunque le colonne portanti di questo “Anima Noir”, lavoro che davvero poco concede a iniziative della chitarra o della sezione ritmica. Il risultato è molto easy listening e probabilmente farà storcere il naso ai fan della prima ora. Tuttavia, volendo mettere da parte per un attimo i paragoni con il passato, va segnalato come il disco sia senza dubbio curato e, nel complesso, piuttosto gradevole. L’opener “Kain”, a dire il vero, convince poco, ma la groovy “Unspoken Words”, le agili “Dust” e “Two Seconds”, la semi-ballad “From The Deep” e anche la cover di “Rain” dei The Cult (scelta poco originale, ma efficace) fanno muovere il piedino e/o restano in mente sin dal primo ascolto. Obiettivo vitale per un album di questo genere.