9.5
- Band: THERAPY?
- Durata: 00:45:10
- Disponibile dal: 07/02/1994
- Etichetta:
- A&M Records
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My girlfriend says / That I need help.
My boyfriend says / I’d be better off dead.
Non si poteva cominciare altrimenti a parlare di quel gioiellino heavy-punk che è stato “Troublegum” dei Therapy?. L’intro di “Knives” è iconica e resta tale ancora dopo ben ventisei anni. “Troublegum” esce infatti il 7 febbraio 1994 per la mitica A&M (poi presa dalla Polydor, e poi Universal), segnando il secondo full length album dei nord irlandesi dopo “Nurse” ed è stato registrato tra l’Oxfordshire e Londra. Avendo venduto più di un milione di copie e risultando in classifica coi suoi ben otto (!) singoli, risulta essere il picco commerciale della carriera della band di Andrew James Cairns, che nel 1993 aveva, proprio grazie all’Ep “Shortsharpshock” (che aveva comunque dentro “Screamager”), preso un boost commerciale importante, arrivando a Top Of The Pops da un lato e aprendo per Helmet e The Jesus Lizard dall’altro. Già, quando ancora queste cose potevano accadere…
Ripercorrendo le tracce di questo gioiello targato Cairns/McKeegan/Ewig, ci si ricorda bene come i classiconi si possano incontrare praticamente ovunque, ma è sicuramente nella prima cinquina di pezzi che già era chiaro come l’album fosse qualcosa di unico. Il piglio punk è gestito con una oscurità e una pesantezza tutta heavy metal, suonato bene e prodotto altrettanto. I Type O Negative incontrano i Misfits e si sfidano a una battaglia di singoli. L’alienazione Nineties dell’alt-rock e del punk, degli Husker Dü e del grunge più sbarazzino, l’appeal del radio-edit sotto i quattro minuti, le libertà di certi arrangiamenti new wave (che oggi sarebbero all’appannaggio dell’indie, quello vero), le chitarre da metallari ‘coi cojones’ hanno fatto sì che un disco come questo trascendesse – seppur con la sua immediatezza – tutte le restrizioni dei generi. In pratica trovare qualcuno che non apprezzava questo disco era cosa più unica che rara, anche e soprattutto se lo si chiedeva a quelli per i quali esistevano da un lato i Sex Pistols e dall’altro polo, inconciliabilmente, i Metallica.
“Knives” (uscito come singolo solo in USA), “Screamager”, “Turn”, “Nowhere”, “Die Laughing”, “Trigger Inside” se la giocano sul medesimo campo di gioco. Un lieve (ma proprio di poco) passo indietro forse lo fa la cover di “Isolation” dei Joy Division, anch’essa uscita come singolo e con un video promozionale girato in due versioni, forse un tassello sotto tutto il resto in termini di memorabilità. Nella progressione del disco è certo un qualcosa che funziona benissimo – come tutto il resto, d’altronde – ma al ballottaggio con una qualsiasi delle succitate perle perde un po’ il colpo, e sembra più un tributo che una pietra miliare da tracklist perfetta. Parlare della potenza dei chorus di “Nowhere” e socie potrebbe sembrare superfluo, ma si sfidi chiunque – anche al primo ascolto – a non avere nel cervello almeno tre/quattro dei ritornelloni di maggiore impatto. “I’ve got nothing to do, but hang around and get screwed up on you” oppure “Goooooing nooowhere“, o ancora “I’ve got a trigger insiiide” e “I think I’ve gone insane, I can’t remember my own name“. Al passo con le hit risiedono però altre gemme, quali l’immortale “Stop It, You’re Killing Me”, “Hellbelly” e tutta la prima parte del disco, veramente perfetta. In particolare la superba “Unbeliever”, che si associa alle prove più radiofoniche di certo alt-rock rumoroso ma epocale (The Smashing Pumpkins), riuscendoci in pieno, anche con l’aiuto helmetiano di Page Hamilton.
Proseguendo nel percorso non si trova alcun inciampo, ma la qualità delle prime sezioni risulta talmente alta da sostenere già da sé tutto il resto, che ormai è facilmente in discesa libera. “Lunacy Booth” probabilmente risulta la prima canzone a non far cappottare dalla sedia, ma farebbe la fortuna di qualunque band goth-rock ancora oggi; “Turn” non è miracolata ma è comunque un ottimo singolo; “Femtex” probabilmente ha una linea d’apertura che risulta l’emblema di una generazione, almeno di quella che per la prima volta viveva quella realtà virtuale che la televisione e i media iniziavano a instillare nelle menti; “Unrequited” è una delle gemme nascoste del disco, con un finale degno dei migliori Afghan Whigs (usciti poco prima con la bellezza brutale – tutta grunge – di “Gentleman”), complice l’accompagnamento del violoncello di Martin McCarrick; e, infine, “Brainsaw”, una perfetta chiusura per un disco perfetto, “I’m in hell and I’m alone”. A parte la hidden track di “You Are My Sunshine” sul finalissimo, nel corso del tempo e delle edizioni deluxe, son saltati fuori altri brani che possono oggi essere compresi all’interno di queste sessioni, ma non staremo qui a dilungarci sulle b-side dei singoli e le varie edizioni/dischi/bonus a cui questo disco è andato incontro – anche se “CC Rider” andrebbe decisamente recuperata!
Quattordici tracce, nessuna arriva a quattro minuti, chorus da una vita in cameretta, suoni che compiacevano punk e metallari, in uno dei sodalizi migliori che queste diramazioni del rock abbiano avuto dalla loro: radiofonico, raffinato, pacca in faccia e profondo come un vero figlio del suo tempo. “Troublegum”, siòri. Indiscusso capolavoro di Cairns e soci.