6.0
- Band: THRON
- Durata: 00:46:59
- Disponibile dal: 31/10/2025
- Etichetta:
- Listenable Records
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Thron, quinto atto. In un percorso musicale che dal 2017, anno di pubblicazione dell’esordio omonimo, ha sempre fatto della genuflessione all’altare della corrente black-death svedese la sua unica postura, la band della Foresta Nera si è contraddistinta soprattutto per la cura riposta nel confezionamento dei dischi e per la costanza con la quale, di volta in volta, ha saputo ripresentarsi sul mercato.
Tanto è bastato per mantenere attivo il contratto con Listenable e godere di una buona visibilità underground, tuttavia l’impressione è che più passi il tempo e più le capacità espressive del quintetto stiano ristagnando senza un vero, significativo passo in direzione di uno stile più riconoscibile; una voce propria che, ricordandosi ovviamente del suono di quella di Watain, Necrophobic e Dissection, sappia elevare il discorso complessivo e condurre a risultati significativi per il filone (vedasi il ritorno dei Malakhim).
Oggi, trascorsi i due anni ‘di rito’, i Nostri si rifanno avanti con “Vurias”, ennesimo album prodotto egregiamente e introdotto da un artwork di sicuro impatto, riportante la firma di Daniele Valeriani (Mayhem, Unanimated, Vltimas), ma che dietro una facciata di professionalità, padronanza strumentale e conoscenza della materia trattata riserva ben pochi guizzi o sussulti, a maggior ragione se a conoscenza del contenuto dei capitoli precedenti.
A dirla tutta, l’implementazione di arie prog rock nei costrutti arcigni di “Ungemach (Stilles Ende)” e “Griefbearer” potrebbe essere vista come un tentativo di crescita e di sfida alle regole del gioco, ma – oltre a suonare estemporanea nella totalità dell’opera – non brilla granché per efficacia e fluidità, con sintetizzatori anni Settanta e note di sax a fare la loro comparsa in maniera un po’ goffa e forzata.
Le cose, prevedibilmente, girano meglio quando i Thron vanno sul sicuro, lanciandosi in un omaggio sfrontatissimo alla lezione dei maestri, sebbene anche in questo caso andrebbe sottolineato come l’ispirazione messa in campo non sia esattamente quella ravvisabile nei lavori di altri esponenti del circuito teutonico come The Spirit, Outlaw o Chaos Invocation, fermandosi qualche gradino più in basso del coinvolgimento in grado di appianare la componente derivativa.
Ne emerge un disco che, ancora una volta, saprà sicuramente intercettare una certa nicchia di pubblico, quella che subisce sempre e a prescindere il fascino dell’immaginario black-death scandinavo, ma che in ultimo – esattamente come i passati “Dust” e “Pilgrim” – vive più di luce riflessa che di creatività ardente e pulsante, smarrendosi fra le ombre di un ossequio scolastico e destinato a non lasciare un segno duraturo del suo passaggio.
