7.5
- Band: THY ART IS MURDER
- Durata: 00:40:12
- Disponibile dal: 22/09/2023
- Etichetta:
- Human Warfare
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È dovuto passare del tempo, sicuramente più del previsto, ma alla fine i Thy Art Is Murder sono riusciti a mettere insieme un’opera che giustificasse il loro status di pilastri della scena death-core contemporanea.
Fin qui, pur essendosi reso protagonista di una serie di lavori formalmente curatissimi, il gruppo australiano aveva sempre dato l’impressione di sposare una politica del ‘minimo sforzo, massimo risultato’ tanto conveniente in termini di presa sul pubblico (basti pensare ai tour di alto profilo portati a termine negli anni) quanto infruttuosa se rapportata alla brama di evoluzione e affinamento manifestata da alcuni colleghi (Whitechapel e Fit for an Autopsy su tutti), generando negli ascoltatori più esigenti un vago senso di rammarico e il dubbio che, sotto la corazza in titanio di opere come “Hate” o “Human Target”, spesso ostinate nell’inseguire un approccio quadrato e percussivo, potesse celarsi un animo più emotivo e duttile che avrebbe permesso all’insieme di andare oltre il mero impatto frontale del genere.
Oggi, a quattro anni di distanza dall’ultima fatica in studio, queste supposizioni trovano piacevolmente riscontro in un album mai così profondo e definito per gli standard della band di Blacktown, riaffacciatasi sul mercato con l’intento abbastanza palese di valicare quella comfort zone esplorata giocoforza in ogni angolo e di mettere il cuore (oltre che i muscoli) nei brani confezionati per l’occasione.
Una scelta che il quintetto compie nel momento giusto della propria carriera, considerata anche la natura indipendente di “Godlike”, e che sotto l’attenta supervisione dell’amico/produttore Will Putney (Knocked Loose, Misery Index, Unearth) si concretizza in un suono più vitale e dinamico nelle parti prettamente brutali e aggressive, con un dialogo rinnovato tra chitarre e sezione ritmica, e aperto alla sensibilità nei punti chiave della tracklist quali l’inizio (“Destroyer of Dreams”), la metà (“Everything Unwanted”) e la fine (“Bermuda”), episodi da cui traspaiono una serie di melodie, rintocchi atmosferici e stratificazioni sonore che elevano la narrazione ben al di sopra dei tipici costrutti di CJ McMahon e compagni.
A ben vedere, nulla di veramente rivoluzionario e personale – qualcuno, non a torto, potrebbe trovare delle analogie con gli autori di “Oh What the Future Holds” – ma comunque sufficiente a rendere piena e longeva l’esperienza d’ascolto, senza filler o parentesi interlocutorie alla maniera dei capitoli precedenti. Un flusso ora viscerale e ritmato, ben rappresentato dai singoli “Join Me in Armageddon” e “Keres”, ora rarefatto e drammatico, in cui i vari interpreti danno finalmente l’impressione di esprimersi a tutto tondo dal punto di vista tecnico ed emozionale.
Troppo spesso, riscontriamo come il death-core stia mutando faccia in qualcosa di artificioso e innocuo, quando non addirittura slegato da un’idea precisa di songwriting (basti pensare a certi mappazzoni del catalogo Century Media), ma i Thy Art Is Murder di “Godlike” si muovono fortunatamente nella direzione opposta, ribadendo come sia anzitutto grazie alla cura riposta nei riff e nelle dinamiche che è possibile vincere sulla concorrenza.
Per gli appassionati del filone, ma anche per i fan delle derive più moderne e groovy del death metal, un ascolto pressoché obbligato in questo settembre caldissimo di nuove uscite.