8.5
- Band: THY CATAFALQUE
- Durata: 01:06:46
- Disponibile dal: 09/16/2016
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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Non è passato nemmeno un anno dall’uscita di “Sgùrr”, ultima sorprendente e strabiliante fatica in studio del progetto Thy Catafalque. Mentalmente forse non eravamo ‘pronti’ ad immergerci in una nuova avventura che è l’ascolto di un disco del polistrumentista tuttofare Tamás Kátai. Già perché un nuovo capitolo di questa one man band è ogni volta un vero e proprio viaggio, un’avventura onirica dove potrebbe davvero accadere qualsiasi cosa, esattamente come in un sogno. Tuttavia, come le altre volte in cui ci siamo dedicati all’ascolto di un nuovo lavoro targato Thy Catafalque, i primissimi ascolti sono stati pervasi da dubbi quali: ‘stavolta forse ha osato troppo’ oppure ‘sì bello, però pareggiare o superare un disco come il precedente… sarà impossibile’. Poi, puntualmente, con il susseguirsi delle fruizioni, l’ addentrarsi nelle sonorità dell’istrionico artista magiaro, diventa sempre più avvincente e surreale. L’avantgarde metal è la macro-area di riferimento per far capire a coloro che non hanno ancora avuto il piacere di ascoltare un lavoro di questo progetto, ma la verità è che parliamo di musica allo stato puro, senza nessuna barriera di sorta. Nell’ora e sei minuti di musica dentro cui vi invitiamo ad immergervi, può coesistere letteralmente qualsiasi cosa: dalla ritmica elettronica che batte dritta sulla cassa, al velenoso riff black metal, dall’inserto atmosferico folk dal gusto mediorientale, al ritmo più incalzante, martellante e groovy; si può poi transitare attraverso suite orchestrali maestose ed evocative, oppure attraverso un terremotante blast beat in salsa death metal. Ci sono fior fior di band che, nel panorama musicale odierno, si vantano di essere sperimentali e si forgiano del fatto di non avere barriere di sorta, ma in quanti riescono davvero ad essere coerenti e, soprattutto, a scrivere brani che abbiamo una logica e un reale senso compiuto? Per la verità non tantissime, inoltre, data l’enorme quantià e varietà di materiale messo nel piatto, il rischio di combinare un pasticcio è sempre dietro l’angolo. Ebbene, i Thy Catafalque non incorrono praticamente mai nell’errore di voler strafare e riescono a dare una forma compiuta ai brani, grazie a una capacità di songwriting che ha davvero pochi eguali attualmente in circolazione. Per provare a descrivere al meglio le sensazioni e la serie di elementi dinnanzi a cui ci si può trovare, qualora si decidesse di dare una possibilità a questo disco, proveremo a fare una breve analisi dei singoli brani che compongono “Meta” cercando – dove possibile – di non sperticarci o perderci in lodi ed esaltazioni eccessive. “Uránia” apre le danze con un riff roccioso ed essenziale, arricchito da un tappeto di tastiere maestoso e piuttosto pomposo. Un velenoso scream, pieno di effetti, irrompe nel brano ci porta alla mente i Dimmu Borgir più moderni, quelli del periodo “Puritanical Euphoric Misanthropia”, così come l’innesto in clean vocals della seconda parte del brano, sognante ma al contempo in contrapposizione con il tappeto strumentale più perforante e diretto, confluendo poi in un finale rabbioso e quasi inaspettato. “Sirály” è fondamentalmente un brano d’atmosfera, dove una voce femminile culla l’ascoltatore in una nenia medievale dal sapore di luoghi incontaminati e ruscelli che dapprima scorrono placidi e che lentamente deflagrano in impetuosi torrenti di suono, con assoli liquidi e muri di suono che vengono pian piano erosi dalle note delicate, fino a giungere ad una calma finale irreale che ha il dovere di guidarci verso il primo singolo del disco: “10?²° Ångström”. Questo in qualche modo è uno dei brani più diretti e comprensibili sin dai primi ascolti, del lotto. I primi minuti sono trascinati da una ritmica serratissima fatta di doppia gran cassa, un riffing di estrazione black ma con un groove moderno e decisamente appetibile, da suoni di tastiera non più orchestrali ma quasi electro dark. Il finale del brano lascia l’ascoltatore tramortito con questa suite finale elettronica quasi futuristica. L’ascoltatore a questo punto deve tenersi pronto a trovarsi catapultato in un’atmosfera antica. “Ixión Düün” ha un’introduzione orchestrale, epica e guerraiola, che lascia presagire a un clangore di spade, di urla, sabbia e sangue. Potrebbe tranquillamente essere la colonna sonora di un film di guerre medievali. Quando infatti verso ai due minuti irrompe il suono di chitarra l’impressione è quella di trovarsi nel bel mezzo di una battaglia e le sonorità sembrano prendere il meglio della violenza e dell’epicità di band quali Nile e Behemoth. Il brano è molto lungo e articolato e, giunti verso i quattro minuti la ritmica cambia e diviene via via più allungata e distesa fino a sfociare in un’atmosfera folk decisamente più rilassata e dimessa, concludendosi con arpeggi di chitarre acustiche che non sono altro che il preludio all’unico brano strumentale. “Osszel Otthon” è la classica traccia di transizione, dal sapore folk con qualche ricordo di post rock, nulla di indimenticabile sinceramente, tuttavia anche questa è una tappa del viaggio e ha il compito di rilassare l’ascoltatore e introdurlo verso il momento più impegnativo del disco. “Malmok járnak” è la canzone più lunga di “Meta”, ma non solo, è la più lunga dell’intera discografia e come ogni pezzo lungo dei Thy Catafalque, racchiude tutta l’essenza del suono della band. In questi ventuno minuti e sedici secondi è racchiusa tutta la visione distorta, tutta l’evocatività, la capacità di emozionare di ipnotizzare e di abbracciare l’ascoltatore in un vortice di sensazioni. Un brano che quasi assume i connotati dell’esperienza, se si ha la pazienza e la voglia di lasciarsi trasportare da questa singola canzone per tutta la sua interezza, nei suoi vari saliscendi, nei suoi momenti di quiete e in quelli di tempesta. Non proseguiamo oltre nella descrizione del brano per non divenire eccessivamente celebrativi, ma ovviamente il consiglio è quello, anche in questo caso, di provare per credere. “Vonatút az éjszakában” è di nuovo un brano di decompressione, un po’ sulla falsariga della strumentale “Osszel otthon”, la differenza è che in questo caso troviamo una voce maschile, una nenia cantilenante e un’atmosfera tipicamente mediorientale e folkloristica: chiudendo gli occhi e lasciando viaggiare le sensazioni trasmesse dalla musica, sembra quasi di sentire l’odore della bruma e delle nebbie nelle foreste magiare. Verso la fine, il brano assume un’aura via via differente, l’atmosfera inzia a cambiare, e ad introdurre l’ascoltatore verso “Mezolit”, ovvero il secondo singolo di questo disco. La canzone parte con un riff e un’indole che ci ha portato alla mente certe sonorità doom/sludge, alla Electric Wizard, tanto per intenderci, con un incedere lento, pesantissimo e catastrofico, talvolta pervaso da queste tastiere funeree e da un growl tetro, oscuro e cavernoso… Fino a giungere all’ennesimo cambio radicale di atmosfera che varia in maniera radicale e assolutamente inaspettata tutte le sensazioni sin qui provate. L’ascoltatore, a questo punto della canzone, già si era preparato a lasciarsi dondolare da questa indole decadente, quando invece ad irrompere è un’apertura melodica di un’intensità e di una potenza assolutamente devastanti, un refrain melodico dal sapore esotico che farebbe impallidire i migliori Orphaned Land; questo frangente da solo probabilmente varrebbe l’acquisto dell’intero platter. Per descriverlo l’unico aggettivo che ci viene in mente è commovente, perché questa è la sensazione che ha suscitato a chi scrive. “Fehérvasárnap” onestamente è un brano irrilevante, si tratta di un’outro parlato con tastiera di sottofondo, nulla di musicalmente segnalabile. Alla fine di “Meta” si sente il bisogno di qualche minuto di silenzio per ritornare sulla terra. Questo disco è un viaggio attraverso tempi e terre lontane, un’esperienza che se la si affronta con lo spirito giusto, potrà suscitare emozioni grandiose. Un platter da ascoltare e affrontare tutto d’un fiato: abbiamo infatti sì delle singole canzoni a comporlo, ma crediamo che nelle intenzioni dell’artista che lo ha concepito, ci sia la volontà di dare vita ad una sorta di unico brano, fatto di momenti di quiete e da altri di tempesta. I Thy Catafalque sono riusciti ancora una volta a sorprenderci, consegnandoci un disco memorabile, un capolavoro nel suo genere ma anche in senso assoluto. Non osiamo immaginare cosa accadrà nel prossimo capitolo, ma se l’andazzo è questo, l’impressione è che ne sentiremo ancora delle belle.