7.0
- Band: TIAMAT
- Durata: 00:52.43
- Disponibile dal: 30/04/2002
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Self
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“Judas Christ” dei Tiamat è uno di quei dischi apparentemente semplici da recensire, e quasi legittimati da una possibile stroncatura da parte di un ascoltatore poco attento e di un critico altrettanto incapace di relazionarsi alle vicende di una band con una storia ed un’evoluzione unica ed irripetibile come questa. Se credete che “Judas Christ” faccia rima unicamente con un’ulteriore apertura commerciale, perdita di quei nobili obiettivi artistici per cui i Tiamat erano rimasti ancora notevolmente apprezzati e compresi (?) anche fino a poco tempo fa, probabilmente può significare soltanto che non abbiate voluto riservare troppo tempo nell’ascolto e comprensione di questo nuovo lavoro, bollandolo immediatamente come qualcosa di poco conto, o che probabilmente la vostra sia stata soltanto una valutazione negativa aprioristica e dalla quale sareste riusciti ad evadere soltanto con un pizzico di volontà e buona fede in più. Per quanto mi riguarda, l’ultimo Tiamat è un album validissimo, meritevole e sincero nel suo essere così sfrontatamente commerciale ed easy listening, che proietta Johan Edlund in una dimensione sempre meno legata alle sue radici metal ed ormai orientata ad un pubblico di matrice dark-pop/rock, ancor più di quanto il precedente, e comunque dignitoso, “Skeleton Skeletron” avesse già mostrato; d’altro canto, “Judas Christ” non può neanche essere smaltito come l’ennesimo episodio da assottigliare alla nuova ondata di goth-rock (vedi HIM, To/Die/For, Eisheilig…), in quanto si avvale di una cultura goth che va a scavare direttamente in The Mission, Sisters Of Mercy, Fields Of The Nephilim e The Cult, e questo va doverosamente detto fin da ora per non cadere nello stesso tranello cui molti altri non hanno saputo far fronte. Se il progetto Lucyfire era stato uno squallido tentativo di rapportarsi ad una realtà priva di fronzoli e profondità artistica, il nuovo capitolo dei Tiamat è qualcosa che si interpone proprio tra l’ispirazione vellutata ed ancora visionaria di “Skelton Skeletron”, e gli eccessi di volgarità presenti nella parentesi “This Dollar Saved My Life At Whitehorse”, e l’unica cosa che riesce ad elevarlo qualitativamente al di sopra di entrambi i suoi predecessori, è una sostanziale maggiore attitudine alla ricerca del refrain fresco e catchy, che in questa sede non conosce cedimenti e crisi creative. E’ pur vero, come potreste farmi notare, che tolti un paio di brani come l’opener “The Return Of The Son Of Nothing” o “Love Is As Good As Soma” in cui è ancora in parte riconoscibile il trademark caratteristico degli ultimi e crepuscolari Tiamat, la quasi totalità del disco è intrisa di melodie dirette, essenziali, di facile consumo ed assimilazione, che farebbero pensare ad una sostanziale mancanza di profondità artistica nella nuova direzione stilistica intrapresa dai nostri; ma al tempo stesso potrei rispondervi che la forza dei nuovi Tiamat alberga (e lo desidera fortemente) nella leggerezza e nella voglia di spensierato intrattenimento, in contrapposizione forse all’eccessiva autocommiserazione e pesantezza di qualche anno fa; in un certo senso, canzoni come “So Much For Suicide”, “The Truth For Sale” o “Spine” sono una fotografia rilassata ed acquietata di un Johan Edlund per cui gli unici colori del suo mondo non sono più quelli dell’autunno senza fine di “Wildhoney” e “Deeper Kind Of Slumber”, ed aprono invece alle luci variopinte della Dortmund nella quale ormai da qualche anno passa gran parte dei suoi giorni. Il tanto bistrattato singolo “Vote For Love” poi, dichiaratamente composto per lasciare ai posteri un’immagine positiva e scevra di pessimismi forzati che in un momento come questo vorrebbero essere estranei alla maggior parte delle persone sul pianeta terra (sempre secondo Edlund e i suoi compagni…), non è altro che un brano godibilissimo, semplice ed immediato nella struttura ma che si avvale di un feeling e di un gusto negli arrangiamenti decisamente vincente, che nonostante il contenuto quasi demenziale delle liriche (chi avrebbe mai immaginato di sentir pronunciare dallo stesso Johan Edlund di “Sumerian Cry” e “Astral Sleep”: ‘it’s about time / we all get out / and vote for love’?) conferma le indubbie capacità dei nostri di comporre musica di grande qualità ed una spanna sopra a chiunque altro provi a cimentarsi nel genere di questi tempi (compresi i maestri The Mission di Wayne Hussey, il cui recente ritorno è apparso stanco e forzato). Per finire, volevo far notare come non manchino divertissement e sperimentazioni come nelle due tracce conclusive (polverosissimo dark-country semiacustico che ricorda alcune cose dei The Cult e dei The Mission di “Neverland”) e nell’intermezzo strumentale “Sumer By Night”, in cui è possibile ancora ravvisare quello spirito mai del tutto sopito che rievoca le medesime visioni isteriche ed introspettive che avevamo conosciuto ai tempi delle immortali “Do You Dream Of Me?” e “Whatever That Hurts”. Un album consigliatissimo se siete in cerca di emozioni mordi e fuggi, ma anche se avete amato e continuate ad amare la musica dei Tiamat.