8.5
- Band: TIAMAT
- Durata: 00:57:55
- Disponibile dal: 27/10/2003
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Self
Spotify:
Apple Music:
Questo nuovo “Prey” targato Tiamat è una strana creatura. Sembrerebbe inutile fare un’affermazione simile, tanto risaputa è l’unicità della personalità artistica di Johan Edlund. Ma proprio in virtù di ciò è indispensabile sottolineare come ogni capitolo della discografia della band (e “Prey” non fa eccezione) sia popolato da scoperte e intuizioni sempre differenti, da una ricerca e da risultati sempre creativamente diversificati, in cui l’unica cifra stilistica unitaria è da ravvisarsi nell’impronta inconfondibile dell’interiorità del singer. Il nuovo lavoro della band prosegue idealmente il percorso del precedente “Judas Christ”, ma allo stesso tempo se ne distacca, assumendo connotazioni emozionali e peculiarità proprie. I diversi mood dell’album convergono spontaneamente in una sorta di omogeneità che fa delle song un’articolata intima narrazione del viaggio dentro se stessi. Non potrebbe esserci termine più appropriato di quello di ‘viaggio’ per designare l’essenza di “Prey”, dove ogni canzone è il frammento delle enigmatiche meditazioni e dei sentimenti lacerati di un’anima. E’ affascinante come Johan Edlund riesca, forse dolorosamente, ad attingere da se stesso tutta la potenza e la dolcezza evocativa delle sue creazioni, marchiandone a fuoco il destino e i significati. E’ di lui che vivono la musica e le parole dei Tiamat, è la sua figura indecifrabile che giganteggia poeticamente su tutte le composizioni. “Prey” ha portato ad un grande livello di maturazione queste istanze artistiche, presentandosi musicalmente come un’opera non discontinua né lacunosa, che ha ben condotto a compimento il desiderio di risvegliare emozioni proprio della band. L’uso degli strumenti è elegante e misurato, così come quello dei synth, mai troppo invasivo. Davvero notevoli e azzeccate sono le melodie chitarristiche che impreziosicono ogni brano. Gli arrangiamenti e la produzione sono come sempre su ottimi livelli, cupi e cristallini. Il tappeto sonoro, alle volte scarnificato ed etereo, altre volte maestoso e traboccante di segrete pene, si innesta alla perfezione sulla grande prova vocale del singer. Edlund sa essere caldissimo, teneramente romantico, cinico/sarcastico eppure permeato da una tristezza che ci colpisce al cuore, che ha il sapore inequivocabile delle cose perse. In tutto ciò i Tiamat non scordano le influenze musicali a loro ultimamente più care, come Sister Of Mercy, Joy Division e accenti pinkfloydiani. Questo nuovo platter non si propone all’ascoltatore come il disco shockante di chi sa quale svolta, ma come una meditazione delicata ed affascinante che, prima di potersene rendere conto, conquista a continuati ascolti. La sua bellezza è dovuta in buona parte anche al fatto che si regge su un labile ma perfetto equilibrio tra decadenza e una specie di leggera e ariosa felicità. Questo dualismo musicale di sensazioni, mai portato volgarmente alle estreme conseguenze (forse per questo più profondamente triste e nostalgico) è il motore concettuale attorno al quale si dipana tutto l’album. “Cain”, la opener track, riprende gli usuali riferimenti biblici, ricordandoci per un attimo l’intro di “Wildhoney”, con il canto degli uccelli in un Eden primordiale che lasceranno il posto ad una grande drammaticità. “Ten Thousand Tentacles” è un outro strumentale che ne riprende la melodia portante e la dilata con la chitarra che assume i toni antichi di un sitar e la rende meravigliosamente ipnotica. “Wings Of Heaven” è una dolcissima sensuale cazone su un amore che vorrebbe continuare al di là di tutto e che si apre in un trionfo emozionale verso una possibile realizzazione. La successiva “Love In Chains” ha un incipit electro dark che cede subito il passo alle chitarre per poi tornare durante il ritornello… vi sorprenderete anche voi a cantarlo! “Divided” e “Carry Your Cross And I’ll Carry Mine” sono le due sole ballad in cui si fa uso delle female vocals accompagnate da suggestive keys, da chitarre che tremano sinistramente, da un mood delicato e struggente, quasi un sussurro della dilatazione del dolore… “you are my dream”… le voci di Edlund e della cantante si uniscono e si rincorrono senza posa. “Triple Cross” è un altro outro, elettronico e misterioso. “Light In Extension” inizia come una cavalcata di grande impatto sulla lotta tra bene e male che tanto sembra affascinare il singer, per poi sciogliersi più lentamente. La title track è molto particolare, tra due inserti di orologi e rintocchi di campane, un cantato quasi di bisbigli sottolineato da uno scarnissimo accompagnamento ci porta in una dimensione di intimità funestata dal sentimento del tempo. Il significato del titolo “Prey” assume lungo tutto il lavoro innumerevoli sfaccettature. L’ipnosi onirica lontana di “Garden Of Heathen” è un intro che prepara all’esplosione chitarristica di “Clovenhoof” e al suo andamento sospeso concluso da distorsioni d’effetto. Arriviamo a “Nihil”, su una melodia di keyboard continuamente rallentata e su chitarre plumbee volano lamenti dolci che poi si schiantano di spasimo. Conclude il nostro peregrinare “The Pentagram”, il cui testo è una poesia di Aleister Crowley, approvata in questa versione niente meno che dall’Ordo Templi Orientes. “The Pentagram” è davvero profondissima, sembra provenire da un’altra epoca. Un pezzo lisergico dalle marcate sonorità pinkfloydiane che sorge tra campane, rumori di passi e un organo oscuro che resta sempre in sottofondo, accompagnato da una sorta di versi e rumori demoniaci e da un cupo recitativo. La voce di Edlund è arcana, penetrante, sensualissima mentre ci fa galleggiare in questo universo. In ultima analisi, un disco che merita molto. Una menzione speciale per l’artwork, curato da Edlund in persona, un miscuglio suggestivo tra i colori della terra e quelli della luce, con gli emblematici artigli rapaci che ghermiscono qualcosa di misterioso. Edlund si dimostra ancora una volta pieno di idee quando asseconda in toto la sua genialità individuale.