7.0
- Band: TOMAHAWK
- Durata: 00:39:24
- Disponibile dal: 26/03/2021
- Etichetta:
- Ipecac Recordings
- Distributore: Goodfellas
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Mike Patton è un uomo che vive per osmosi. Non si spiega altrimenti la quantità di band in cui riesce a mettere al servizio la sua ugola, con una frequenza e una naturalezza che hanno dello straordinario.
Questa volta tocca al ritorno sulle scene, dopo ben otto anni, dei Tomahawk, il supergruppo che vede fin dagli albori in formazione Patton, John Stainer dietro le pelli e Duane Denison alla chitarra, la vera presenza centrale dal punto di vista del songwriting e delle sonorità. Arruolato come per il precedente “Oddfellows” il prezzemolino Trevor Dunn al basso, i Tomahawk tornano decisamente alle origini, con dodici tracce che ricordano molto l’approccio del disco di esordio, pur non trascurando la svolta più catchy riscontrabile sul penultimo full-length. Come da consuetudine, i quattro cercano di non lasciare certezze all’ascoltatore brano dopo brano, ma pur nella stranezza genetica, il pattern è noto – e funziona. Abbiamo i momenti più schizoidi di Patton (“Valentine Shine”, o la quasi disturbante “Howlie”), alternati a brani come l’incalzante “Predators And Scavengers”, tipico prodotto in the face di Denison, con un bel ritornello non a caso di gusto Helmet/Jesus Lizard; una traccia che risulta anche suadente grazie alle armonizzazioni aperte di Mike, cosa che avviene anche su “Business Casual”, quasi nostalgica della loro storica “Flashback”. “Fatback” è l’epitome dei Tomahawk, con la spina dorsale del basso di Trevor Dunn e gli acidi trip di Denison a incrociarsi meravigliosamente. Ancora, tra gli episodi di rilievo, citiamo “Eureka”: una canzone cupa e dilatata verso atmosfere quasi orientali, mentre “Sidewinder” si apre come una sorta di cupa ballata dalle sonorità inedite, vicine a certe cose dell’ultimo FNM, prima di trasfigurarsi in un acido balletto tra la linea di basso, una chitarra dilatata e una prova vocale da crooner allucinato; un approccio del resto già presente nella prima parte di “Tattoo Zero”, un brano dove Nick Cave incontra il noise e gli spaghetti western, vecchio amore di almeno tre quarti dei membri della band, come ammesso più volte. Si arriva così, con il piacevole ping pong tra suoni abrasivi, dissonanze ben calibrate e ritmiche intense alla melodica e accattivante “Recoil”, che non chiude materialmente il disco, ma risulta sicuramente più memorabile e particolare della conclusiva “Dog Eat Dog”, pezzo che ripete i cliché fin tropo bene.
“Tonic Immobility” è quindi un brutto disco? Decisamente no. I nomi coinvolti garantiscono molto più della pura sufficienza, e se il loro sound un po’ Nineties con spruzzate di follia non vi ha deluso in passato, non lo farà con questa nuova uscita. Certo, è un lavoro un po’ troppo diretto e prevedibile, sempre considerato chi troviamo a imbracciare gli strumenti.