6.5
- Band: TOMBS
- Durata: 00:57:14
- Disponibile dal: 10/06/2014
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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I Tombs non sono mai stati dei campioni di intrapredendenza. Non annoverabili tra le band dotate tecnicamente oltre la media o promotrici di rivoluzioni musicali di sorta, i Nostri sono però sempre stati una band estremamente laboriosa e costante, sempre abile nell’espandere e rielaborare l’immaginario di altre realtà ben più affermate e trascinatrici, e sempre guidati da una onestà inappuntabile e da una integrità innegabile. La band ha sempre mantenuto i piedi ben saldi in scene affermate (sludge, post-metal, post-black metal eccetera) e ha saputo aggiornare il proprio inventario ad ogni sfida in maniera esemplare, evitando di ripetersi o di indulgere troppo a lungo in stili e ambienti sempre soggetti alla normale usura del tempo. Vedasi i casi di band come Pelican, Mouth of the Architect eccetera, le quali, senza aver saputo sfruttare nuove scie e tendenze, oggi si ritrovano in un difficile pantano di irrilevanza. I Tombs invece hanno sempre saputo contare sul supporto di mamma Relapse e grazie alla costante spinta a voler guardare oltre e a voler esplorare fino in fondo il proprio potenziale sono stati tra le prime band a intravedere il potenziale del black metal usato a fini contaminatrici con lo sludge, il doom, il post-core, eccetera. Ecco dunque che questo nuovo “Savage Gold” risulta immediatamente come un giro di boa evidente per i Nostri. Sempre più lontani sono infatti gli inizi sludge della band visti con “Winter Hours”, come anche le tendenze post-core e doom visti in “Path of Totality”. Pur non alterando il proprio DNA, la band ha compiuto fino in fondo quella mutazione sempre accennata ma mai pienamente realizzata di band ormai cento per cento trasformatasi in una entità inconfondibilmente black metal. In questo caso la produzione nitida, cristallina e strutturatissima di Erik Rutan ha decisamente aiutato la band nella propria metamorfosi e in effetti grande enfasi è stata messa dalla produzione sul doppio pedale secco e cesellante e sulle chitarre sature e taglienti, che nei loro momenti più serrati e thrashy sembrano ricordare in maniera incredibile persino i Dissection o gli Enslaved. “Savage Gold” insomma ci presenta i Tombs forse per la prima volta come pura band (black) metal, e non post-core o comunque contaminata da varie anime differenti come in passato. La metamorfosi in puro metallo dei Nostri sembra anche avere delle solide basi tecniche. In formazione infatti ora troviamo Ben Brand dei black metaller newyorkesi Woe al basso e Garrett Bussanick dei deathster futuristici Flurishing alla seconda chitarra: una variazione nella lineup che non lascia dubbi. Nella band è stata trapiantata una nuova anima di indiscutibile natura puramente metal che ora come ora sta dettando in tutto e per tutto il nuovo corso puramente black. Detto ciò, va anche chiarito però che pur nella loro genuina onestà e intraprendenza, i Tombs rimangono una realtà con tanti limiti evidenti ed innegabili, soprattutto tecnici e creativi. Mike Hill non è mai stato un mostro di originalità alla seci corde, nè tantomeno alle voci, e se dunque il lavoro delle chitarre rimane tutto sommato ancorato a quelli che sono i canoni del genere senza stravolgere o impreziosire chissà cosa, le parti vocali invece soffrono sempre di quelle note strozzate e calanti che abbiamo sentito ampiamente nei dischi precedenti e che ci ribadiscono con ancora più veemenza come nei Tombs esistano degli aspetti musicali che soffrano spesso di mediocrità bella e buona o comunque di scarsa preparazione. La rabbia, il gelo e disperazione da sempre veicolate nella loro musica rimangono sempre i punti fermi e inespugnabili della forza dei Tombs, ma la stoffa dei campioni veri stenta sempre a saltar fuori in questa band. Le intenzioni ci sono, come anche l’estetica, la personalità e l’intensità dell’esecuzione; ciò che veramente manca ancora una volta ai newyorkesi sono dei riff veri, come è possibile per esempio riscontrarli in band affini ma ben più caparbie come Altar of Plagues, Planks, Wolves in the Throne Room, Deafheaven, Lord Mantis, Wolvhammer, eccetera. Ciò di cui si sente maggiormente la carenza in questa band insomma sono ancora una volta un songwriting sopra la media che sia in grado di veicolare canzoni che arrivino all’orecchio con un qualche elemento di rottura, di imprevedibilità e freschezza, o quegli elementi dati dalla personalità indispensabili a stabilire se ci troviamo o meno di fronte ad una realtà che sta dicendo qualcosa di nuovo o diverso. Invece, giunti alla terza o quarta canzone di “Savage Gold” ,uno strano senso di circolarità e ripetività comincia ad attenagliare l’ascolto (tanto che appare superfluo e persino arduo menzionare una canzone piuttosto che un’altra); i riff sembrano tutti uguali, le canzoni indistinguibili le une dalle altre e, in generale, la musica tende a citare sè stessa all’infinito in un circolo vizioso irrisolvibile che, alla fine, nonostante l’intensità, l’onestà e la genuina crudezza, non riesce mai a far decollare il lavoro incerto di una band che alla fine ha sempre mostrato di provare tanto a fare il salto senza però mai riuscirci definitivamente.