8.0
- Band: TORCHE
- Durata: 00:36:00
- Disponibile dal: 12/07/2019
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Semplicemente irresistibili. Questo sono oggi i Torche. “Restarter”, nel 2015, aveva dato compiutezza a un percorso di ascesa costante, verso un archetipo di hard rock contaminato da sludge, stoner e arie sognanti, che nelle mani della band di Miami diventava un arcobaleno nucleare di canzoni magnetiche e dal potenziale di intrattenimento smisurato. “Admission” cementa una percezione già allora abbastanza definita, ovvero quella di essere davanti a musicisti che hanno trovato la formula perfetta, un uovo di Colombo ricercato assiduamente da tutti coloro che si spendono in un genere di facile richiamo e dove colpire nel segno in pochi istanti è una necessità vitale. Questione di sopravvivenza (artistica e commerciale). Nel loro quinto disco, i Torche paiono seguire un immaginario testo di riferimento, una bibbia su come costruire hit single di sicuro successo, non scrivendo per forza il tipico singolo da ‘facile acchiappo’. Carpiscono le nostre attenzioni disinvoltamente, senza metterci in apparenza chissà quale sforzo, visto che non puntano spudoratamente al motivetto appiccicaticcio e al chorus scandito alla nausea.
Quasi meglio che in “Restarter”, la produzione è un magistrale esercizio di moltiplicazione della pesantezza e di adeguata sottolineatura di stranianti melodie e di paesaggi sonori onirici e stralunati. Il suono è grasso, sfaccettato, non soffoca affatto le intemperanze fuori dalle righe delle chitarre, che se ne escono con idee soliste quasi insensate, fuori dal coro e in contrapposizione alla forza delle ritmiche. Un rombo di tuono, dal piglio quasi motorheadiano, di alcuni attacchi, si scontra con linee melodiche azzurrine, perse in un incanto beato che potremmo attenderci in ambienti shoegaze e dreampop, non quando vi è tutto questo rumore attorno. Per molti aspetti, i Torche hanno scritto un “Restarter II”, anche se qui la vena psichedelica pare allargarsi, i soundscape perfino più sgargianti ed emananti contrasti di colore così sfrontati da non crederci. E dire che si parte da elementi scarni, minimali. Un pezzo come “Times Missing” presenta ritmi e riff ridotti all’osso, eppure… Eppure il gigantismo del suono, l’espandersi verso sfumature beate e ottimistiche, il groove persistente e la pacatezza con cui Brooks modella le vocals, ne fanno un brano che venti-venticinque anni fa avrebbe inondato MTV a ogni ora del giorno e della notte.
Le somiglianze sfacciate con il grunge di Soundgarden e Nirvana sono benedette quando si integrano a uno stile come questo, all’incrocio di generi assimilati e vissuti dalla band con adesione filologica, se presi singolarmente, e che shakerati tutti assieme fanno scaturire canzoni semplicemente adorabili. Non hanno nemmeno bisogno di ricorrere a ritmi chissà quanto scatenati, i Torche, pur non lesinando in dinamismo, grazie allo scatenato batterista Rick Smith, che suona con energia smodata e sa dare vigore anche nei momenti in cui il gruppo pare adagiarsi in una stramba tranquillità. Alle prese con le chitarre stoppate e obese di una “Slide”, sembra di ascoltare una nenia per bambini trivellata da un martello pneumatico, ed è un abbinamento produttivo, stupendamente fruttifero. La titletrack, a sua volta, è un blocco di marmo comodamente avviluppato da uno strato di morbidi cuscini, sui quali campeggia la vocalità di Steve Brooks. Cantante che rifugge il rauco gridare delle prime voci sludge e va piuttosto a utilizzare una metrica tutta sua e un pulito narcolettico di impronta stoner, dove non è difficile ritrovare un timbro alla Chris Cornell. Funziona tutto benissimo, non c’è prolissità o calo di tono a penalizzare l’album: in trentasei minuti, durata perfetta per una ricetta simile, i Torche soddisfano a sazietà gli appetiti acustici delle anime rock dalle inclinazioni più disparate. Impossibile farne a meno.