7.5
- Band: TRIAL
- Durata: 00:47:34
- Disponibile dal: 07/07/2017
- Etichetta:
- Metal Blade Records
- Distributore: Audioglobe
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Nelle evoluzioni dei generi musicali, capita a volte che si finisca su binari morti. Non perché questi portino in direzioni poco interessanti, semplicemente una determinata destinazione, e il percorso stesso, passano di moda. L’heavy metal progressivo è una di quelle nicchie che, toccata l’auge nella seconda metà degli anni ’80 grazie al triumvirato Queensrÿche-Fates Warning-Crimson Glory, si è poi sovrappopolata nella sua naturale evoluzione di prog metal in senso stretto, mentre il classic metal ‘complicato’, sopravvissuto fra alterne fortune negli anni ’90, quasi si è estinto. Rimasto a vegetare nell’underground, portato avanti da uno sparuto numero di ensemble, ha ora la possibilità di godere un minimo di visibilità grazie ai Trial. L’approdo su Metal Blade può essere l’occasione d’oro che il gruppo svedese andava cercando, anche se la natura caleidoscopica e non perfettamente inquadrabile della proposta, nonostante la sua alta caratura, rischia ancora una volta di relegare il quintetto nel novero pregiato, ma sventurato, delle cult band. Non contenti di aver prodotto due anni orsono un album articolato e sfuggente come “Vessel”, i Trial vanno a cercare nuove suggestioni, attenuando buona parte dell’afflato occulto e dannato che li faceva accostare ai Mercyful Fate e li poneva nel filone dei vari In Solitude, Portrait e Attic. In “Motherless” avanzano piuttosto le chitarre gemellari di scuola Iron Maiden e il dissertare menestrellesco dei Fates Warning, che permeano delle loro atmosfere oniriche e fiabesche le tracce più elaborate del disco. L’apertura è invece affidata a una cavalcata impetuosa che attraversa idealmente, a perdifiato, il continente europeo nelle sue forme musicali devote alla velocità e alla melodia d’acciaio, come si usava in Inghilterra, Scandinavia e Germania trent’anni fa e oltre. La titletrack pulsa degli ardori degli Iron Maiden dell’epoca Di Anno, dando un’impressione buona ma non del tutto veritiera su quelli che saranno i contenuti dell’intero “Motherless”. Perché se “Cold Comes The Night” e “Aligerous Architect”, la prima evocando i Fates Warning di “The Spectre Within” e i primi Steel Prophet, la seconda toccando punte di parossismo speed metal, prediligono il linguaggio dell’agilità, dei climax armonici e del tambureggiare percussivo, i capitoli migliori li abbiamo quando i Trial se ne fregano del tutto dei cliché’heavy metal. Le melodie dal sapore medievale evocate dalle chitarre acustiche di “In Empyrean Labour” introducono il primo tema di discontinuità a un fluire strumentale canonico, che trova un ampliamento e una ricchezza di sfumature ancora maggiore nell’affascinante “Juxtaposed”. Non è semplice interpretare il pezzo, che ha in parte la forma della ballad medievale, salvo concatenare nel suo dipanarsi riff lunghi richiamanti idilli bucolici a strappi chitarristici vibranti. A tenere assieme l’impasto multicolore delle sei-corde, le modulazioni alte e pulite del singer, che ha rinunciato a ogni incursione in territori oscuri e malevoli per concentrarsi su un cantato dosante linee da aedo ad altre votate a un implacabile screaming. Il meglio i Trial lo tengono per l’accoppiata “Birth”-“Embodiment”, contigue nello sviluppo e rimescolanti con tocco magico ed etereo doom, psichedelia e musica per colonne sonore. Magistrale l’introduzione della prima, quando un cantato flebile fa scorrere brividi lungo la schiena, mentre le chitarre mettono disagio con pochi tocchi cortesi, appena accennati. E la batteria, rintoccando scarna, fomenta il terrore latente. Il brano si apre, di poco, a uno sviluppo corposo e trascinante verso il finale, lasciando il testimone a “Embodiment”. La musica si fa epica, ricca d’enfasi, la metrica vocale incalzante spinge a un incedere glorioso ma gentile, un po’ come usavano i Fates Warning del secondo e terzo album. L’agonizzare vocale nel vuoto riempito a stento da una chitarra acustica, in dirittura d’arrivo, cita – volontariamente o meno non è dato saperlo – il prog di Sieges Even e Soul Cages. E “Rebirth” prosegue su quella strada, intrattenendosi nell’acustico, la dimensione confessionale che avevamo capito saper attrarre la band emerge poco per volta fino a prendere il sopravvento proprio nell’ultima traccia. Una produzione relativamente leggera come si usava nei primi anni ’80, anche se molto più curata nella definizione di quelle di allora, funge da pavimentazione di gioco ideale per il particolare heavy metal qui proposto. Per il definitivo salto di qualità servirebbe un pizzico di foga e di imprevedibilità in alcuni frangenti, le canzoni prevedono ancora piccole pause che ne minano in parte lo slancio. Ma non è un dettaglio che inficia chissà quanto la validità del prodotto, per chiunque ami il classic metal di qualità e dalle ramificazioni nient’affatto scontate, “Motherless” sarà un graditissimo ascolto.