
7.5
- Band: TRIAL
- Durata: 00:50:59
- Disponibile dal: 21/01/2015
- Etichetta:
- High Roller Records
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C’è vita e c’è speranza per l’heavy metal classico. Lo sappiamo, se si segue questo filone i tempi non sono felicissimi; se togliamo chi “bagna” le proprie note di abbondanti dosi di doom, non è semplice trovare nomi emergenti di alto valore, complice anche un interesse per il settore abbastanza basso tra le nuove leve, meglio disposte verso sonorità estreme o di confine con l’hardcore, il crust, lo stoner. Inoltre, da pochissimo ci hanno lasciato anche gli In Solitude, i più talentuosi classic metaller in circolazione della generazione con natali negli Anni ’80 e oltre: come riprendersi dallo shock e guardare al futuro con ottimismo? Semplice, facendosi investire dal secondo full-length dei Trial. Anch’essi svedesi come gli autori di “Sister”, con un paio di membri dei bravi deathster Ensnared in formazione, attingono a profusione col proprio secchio dal pozzo senza fondo del vecchio metal scandinavo, rappresentato ovviamente dalle inattaccabili elucubrazioni dell’asse Mercyful Fate – King Diamond, e vi aspergono sopra uno spesso, quanto ingolosente al palato, strato di NWOBHM. Accostamenti che, con una gestione illuminata, gli In Solitude stessi avevano saputo trasformare in un platter clamoroso come l’esordio autointitolato. Così pure i Trial, senza mirare per ora a stabilire un proprio suono subitamente distintivo, vanno nella direzione di lavorare su fonti chiare e lampanti, per dare forma al proprio impasto di creta in forma di note. Il bello, è che già con l’opener arrivano le prime piccole sorprese, che portano una ventata d’aria fresca e spingono a un’attenta analisi della situazione. La breve title-track in avvio si pone in analogia a “He Comes” degli In Solitude: una malinconia soffusa si fa strada tra gli arpeggi elettro-acustici, per una canzone che in soli tre minuti rimarca un certo agio di questi musicisti nel maneggiare una gamma emozionale abbastanza ampia. “To New Ends” si concatena perfettamente alla prima traccia, rompendo gli indugi e scatenando le prime intemperie metalliche: un basso molto in evidenza e vigorosamente maideniano fustiga i cavalli nel motore chitarristico, e la band si slancia in un up-tempo dinamico dove l’oscurità di fondo lascia sufficiente spazio a linee melodiche trascinanti e il cantato può arrivare più volte alle note alte, al limite del falsetto. Non c’è solo metallo europeo qua dentro, perché le sofisticazioni del riffing ostentano un vissuto di ascolti compulsivi del materiale più datato di Fates Warning e Queensryche. Al numero tre della tracklist, ecco il punto focale dell’intero “Vessel”: “Ecstasy Waltz”. Nel titolo vi è già un indizio, ossia una sorta di perpetrazione del magico progressive degli Psychotic Waltz, secondo un’interpretazione meno visionaria dove si intrecciano anche Solitude Aeturnus, Candlemass, break acustici alla Opeth utilizzati non come fugaci espedienti, ma nel ruolo di architravi attorno ai quali far rifiorire elettricamente un’ariosa epicità. “Through Bewilderment” è un’altra saga di chiaroscuri drappeggiati con studiata sensibilità: approccio arrembante, intrecci solistici entusiasmanti, finale adagiato su delicate pizzicate di chitarra, promulgatrici di tenue tristezza. “A Ruined World” va poi a lambire più che altrove gli In Solitude dell’esordio e, pigiando secchi sull’acceleratore, si costeggiano addirittura gli Attic, vuoi per una cappa sulfurea gravante sull’intera traccia, vuoi per il ritornello acutissimo. “Where Man Becomes All” e la sua armoniosa, eppur secca, contrapposizione di stacchi acustici e serrate cavalcate alla Mercyful Fate ci dà l’assist per sottolineare l’impulso alla varietà di soluzioni dato dalle ritmiche: corposo e sostenuto il basso, con arrangiamenti anche sofisticanti e molto caratterizzanti, e ottimo il lavoro dietro il drum-kit, impeccabile sia sulle sezioni incalzanti e tambureggianti, sia nelle parentesi di ampio respiro, dove si passa a un tocco più morbido ed esile. I Trial non si scompongono nemmeno quando si misurano con una suite di oltre dieci minuti di durata: “Restless Blood” appaga con uno stacco centrale di rarefatto progressive settantiano, a fare da spartiacque ad altre due notevoli cavalcate che non dispiacerebbe a Steve Harris riuscire ancora a comporre. Due parole due su produzione e artwork: la prima ha il pregio di dare risalto a tutti gli strumenti e alle squillanti linee vocali, mentre soffre di un’eccessiva levigatezza in taluni frangenti. Così si rischia di ricadere in suoni affini a del prosaico power metal moderno e di cucire addosso alla band abiti un po’ scomodi e non confacenti ai suoi intendimenti. Per quanto riguarda il lavoro grafico, chapeau: affidarsi a Costin Chioreanu è stata una scelta lungimirante, il rinomato artista rumeno se ne è uscito con un’altra opera surrealista di alta caratura, molto attinente al contenuto sonoro, ossia un heavy metal classico sì, ma non così convenzionale come ci si potrebbe attendere. Non siamo ancora in presenza di un capolavoro assoluto, però stentiamo a ritrovare in questo campo, ad oggi, qualcuno che dia la paga a questo agguerrito quintetto.