7.0
- Band: TRISTANIA
- Durata: 00:42:36
- Disponibile dal: 24/01/2005
- Etichetta:
- SPV Records
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Ci sono voluti più di tre anni ma alla fine i Tristania ce l’hanno fatta a tornare con un nuovo album! “Ashes”, il successore di “World Of Glass”, è infatti finalmente arrivato nei negozi e ci presenta una band rinnovata sia sotto il profilo della line-up che, come prevedibile, sotto quello della proposta. Il gruppo norvegese, con l’entrata in pianta stabile in formazione dei due vocalist Kjetil Ingebrethsen (growl) e Osten Bergoy (clean), oggi vanta ben sette elementi e pare aver scelto di distaccarsi un pochino dal gothic-death metal che era solito proporre sin dagli esordi. Per intenderci, l’evoluzione musicale operata dalla band ricorda un po’ quella dei connazionali Theatre Of Tragedy quando questi ultimi scrissero “Aegis”: sempre di gothic metal si tratta ma oggi i nostri si esprimono in una veste più moderna, soft e sognante, facendo ampio uso di chitarre acustiche e di voce pulita. Il growl e le parti prettamente death metal sono quindi state relegate in secondo piano, ma anche le orchestrazioni e i cori, questi ultimi addirittura del tutto assenti. Molti dei fan, letto questo, saranno già sul punto di disperarsi ma, secondo il modesto parere di chi scrive, questa è stata una scelta azzeccata: se infatti si ascoltano “Libre” e “Circus”, ovvero i brani più violenti e legati al vecchio stile del platter, si comprende all’istante che i Tristania non sembrano più possedere molta dimestichezza con il metal estremo. I pezzi sono alquanto manieristici e danno l’impressione di essere stati inseriti nella tracklist solo per non disorientare troppo il pubblico. Ben venga dunque questa svolta, se il gruppo non è più in grado di maneggiare tali sonorità. Il meglio “Ashes” lo offre con “Equilibrium”, “Cure” o “Shadowman”, canzoni incentrate su chitarre acustiche, su ottime melodie (tipicamente Tristania) e sulla bella e onnipresente voce di Vibeke Stene, sempre più brava e versatile col passare degli anni. C’è poi sovente spazio anche per Bergoy, ma, ad essere onesti, la sua voce – monotona e del tutto anonima – si dimostra all’altezza della situazione soltanto nella conclusiva mini suite “Endogenisis”, forse la composizione più riuscita tra quelle offerte assieme alla succitata “Cure”. Complessivamente l’album non è perfetto – “The Wretched”, ad esempio, a tratti è davvero confusionaria – ma si rivela un buon prodotto, di certo lontano, a livello qualitativo, dai primi due inarrivabili full length ma, a ben vedere, non inferiore a “World Of Glass”. Per “Ashes” vale un po’ il discorso fatto per l’ultimo album dei Graveworm: è un disco di transizione che, accanto a cose validissime, ne presenta altre trascurabili. Una certa classe tutto sommato non viene comunque quasi mai a mancare, quindi un buon sette è il voto che più ci pare idoneo per questa nuova fatica dei norvegesi.