
8.0
- Band: TURBULENCE
- Durata: 01:05:45
- Disponibile dal: 12/03/2021
- Etichetta:
- Frontiers
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Le sorprese arrivano da dove meno le si aspetta e in questo caso ci dobbiamo affacciare all’altro lato del Mediterraneo: arrivano infatti dal Libano i Turbulence, realtà progressive inaspettata, ovverosia una band che fa proprio l’insegnamento dei Dream Theater (dopo aver anche fatto un evento di quattro giorni di loro cover) e lo sviluppa con buona personalità. I tratti in comune con LaBrie e soci in questo secondo lavoro, che fa seguito al primo “Disequilibrium” del 2015, sono riconoscibili soprattutto nella parte strumentale suonata dai due fondatori, con una presenza costante delle tastiere di Mahmoud Yassin e notevoli assoli di Alain Ibrahim, vero e proprio marchio di fabbrica di ogni singolo pezzo. La freschezza che propongono con i loro lunghissimi brani è data principalmente dagli innumerevoli cambi di ritmo e possiamo notare che la loro musica si compone di intermezzi acustici, scale che sfumano al jazz e di sonorità molto più rocciose. Altro loro merito è esser andati a trovare lo spunto per questo “Frontal” in una storia sì conosciuta, ma solo ad alcuni addetti ai lavori: il titolo sta ad indicare la parte frontale del cervello e, nello specifico, quello di Phineas Gage. Questo operaio statunitense, nato guarda caso a Lebanon (omonimia proprio con lo stato che ha dato i natali ai Turbulence), è noto per un incidente capitatogli nel 1848, quando sopravvisse alla ferita infertagli da un’asta di metallo che gli trapassò il cranio e gli distrusse gran parte del lobo frontale sinistro del cervello. Non morì (anzi, visse ancora per dodici anni) ma la sua nuova situazione si tradusse in profonde trasformazioni di comportamento, dato che divenne intrattabile, in preda ad alti e bassi, e incline alla blasfemia. Tutta questa storia viene ben rappresentata dall’evolversi dell’interpretazione di Omar El Hage, cantante versatile dal tono caldo, capace di variare nei passaggi puliti con ricordi della voce di Daniel Gildenlöw a momenti più sofferenti e disperati. A completare i Turbulence vi sono l’eclettico bassista Anthony Atwe che in “A Place I Go To Hide” dà sfoggio di ottima tecnica, in quello che è il brano più complesso di tutta l’opera anche con i suoi passaggi funk, e il batterista Sayed Gereige, sempre incisivo nelle sottolineature dei momenti con maggior pathos. Se “Ignite” e “Crowbar Case” sono i momenti più granitici, “Faceless Man” ricorda sonorità ben più melodiche e complesse nel mondo progressive, più vicine ai Marillion di Steve Hogarth. La conclusione della storia di Gage è racchiusa in “Perpetuity”, altra passerella per le ottime doti di tutti i membri della band e per lasciarci trasportare dai continui e sincopati cambi di velocità. Fatta nostra la vicenda di questo sfortunato operaio, capiamo la finezza artistica della copertina, dove con un gioco di ombre una sbarra conficcata a terra risulta uscire dalla testa dell’uomo. Poliedrici musicisti dall’ampio bagaglio musicale, spunti interessanti sia per la trama che per i vari assoli, canzoni che nella loro interezza e lunghezza soddisfano molti palati per la costruzione e lo sviluppo: una bella realtà supera gli spazi del Mare Nostrum e si libera nel panorama internazionale.