6.0
- Band: U.F.O.
- Durata: 00:46:15
- Disponibile dal: 01/10/2006
- Etichetta:
- SPV Records
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Nel cuore di tutti fan degli U.F.O., inutile negarlo, il nome di Michael Schenker rimarrà per sempre circondato da un alone aureo: l’unico chitarrista che dovrebbe comparire al fianco di Phil Mogg, Pete Way e Paul Raymond, il folle e geniale artista che ha segnato la storia con canzoni che rimarranno immortali per sempre. Purtroppo gli scontri tra il chitarrista e il cantante sembrano aver reso impossibile una nuova reunion e, così, il compito di imbracciare la chitarra solista negli U.F.O. è ricaduto da un paio d’anni su Vinnie Moore, un virtuoso della sei corde che può vantare un curriculum di tutto rispetto e un discreto seguito di fan. L’uscita nel 2004 di “You Are Here” lasciava ancora qualche perplessità, dato che lo stile così ‘ottantiano’ del buon Vinnie non sempre si amalgamava con il sound della band, ma il disco si difendeva bene. Queste perplessità, però, si sono aggravate parecchio da quando il sottoscritto ha avuto occasione di vedere all’opera la band con Moore alla chitarra: il virtuoso, infatti, in occasione del tour di “You Are Here”, appariva davvero come un pesce fuor d’acqua e i suoi debordanti assoli riuscivano a rovinare anche i classici più intoccabili. Bene, da “Your Are Here” sono passati due anni ma ancora qualcosa sembra non funzionare in casa U.F.O.: a parere di chi scrive, Vinnie Moore continua a non essere integrato nel sound della band, ma non è tanto questo il problema, attenzione. In “The Monkey Puzzle” – che, tra l’altro, vede il rientro di Andy Parker alla batteria al posto di Jason Bonham – mancano le canzoni! Il disco non ha tiro, si trascina stancamente per undici pezzi senza mai un botto, una scarica di adrenalina, niente. Solo tanto, tanto mestiere da parte di una band storica che, ormai, certe canzoni viaggia col pilota automatico. Di tanto in tanto fa capolino qualche lontano bagliore del vecchio splendore, soprattutto nei passaggi più bluesy (la buona “Some Other Guy”), nella rockeggiante “Rolling Man” e nella semi-ballad “Good Bye You”. Niente da fare, alla fine il disco si salva dalla bocciatura completa solo grazie a qualche sporadico guizzo di classe e alla solita prestazione ineccepibile di Phil Mogg, ma, a parte questo, gli U.F.O. sembrano aver compiuto il classico passo falso. Peccato.