8.0
- Band: ULCERATE
- Durata: 00:57:40
- Disponibile dal: 28/10/2016
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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L’immagine che meglio di ogni altra rispecchia la musica degli Ulcerate, sia a livello visivo che concettuale, è quella di un’eruzione vulcanica nel cuore della notte. Il magma che fuoriesce ribollente dalla terra esausta, il contrasto del rosso con il nero, una forza tumultuosa che investe ogni cosa sul proprio cammino. Nel corso della loro carriera, giunta ormai alle soglie dei quindici anni, i Nostri hanno sempre saputo sfruttare le potenzialità espressive di certo death e ‘post’ metal, facendole confluire in un songwriting tanto cupo quanto spiccatamente emotivo, e con questo “Shrines of Paralysis” non sembrano intenzionati a guardarsi indietro. L’impatto è straordinario, il tocco inconfondibile, la cura e l’eleganza degli arrangiamenti mai così affinate, per un’opera che si candida da subito a sbaragliare la concorrenza del 2016, alzando un’asticella che dopo il portentoso “The Destroyers of All” non sembrava destinata a spostarsi. Invece, seguendo il flusso di una creatività cangiante e libera da ogni forma di vincolo, il trio neozelandese dà oggi alla luce quello che con ogni probabilità è l’apice del suo percorso evolutivo, un moloch sonoro all’interno del quale le influenze si mischiano, si confondono, fino all’assoluta catarsi, superando una volta per tutte il mero concetto di technical death metal. La componente prettamente estrema sopravvive nelle vocals di Paul Kelland, come sempre brutali e cavernose, e nella potenza scaturita dalla sezione ritmica, con un Jamie Saint Merat semplicemente inarrivabile dietro i tamburi, ma per quanto concerne il guitar work e le strutture dei brani siamo oltre qualsiasi reinterpretazione del catalogo di Immolation e Gorguts. L’incedere della sei corde di Michael Hoggard è pressoché orchestrale, ricco di contrazioni e distensioni, profondi respiri e parentesi di totale abbandono; la melodia, ovviamente declinata in salsa dissonante, emerge senza alcuna fatica, tra arabeschi sinuosi e placidi arpeggi, mentre sullo sfondo il riffing di Luc Lemay si intreccia senza soluzione di continuità a quello di Aaron Turner e Scott Kelly, per un risultato complessivo da pelle d’oca. Episodi clamorosi del calibro di “End the Hope”, la title track e “There Are No Saviours” (tra i più esemplificativi del lotto) non sono altro che la manifestazione di un suono unico e passionale, un ibrido che travalica definitivamente i generi e spiana la strada alla fine dei giorni. Un comeback dalla portata mostruosa.