8.0
- Band: ULCERATE
- Durata: 00:58:23
- Disponibile dal: 24/04/2020
- Etichetta:
- Debemur Morti
- Distributore: Audioglobe
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Cantori di scenari apocalittici e della fine del mondo moderno, promulgatori della riscoperta di certe avanguardie death metal degli anni Novanta (parliamo ovviamente di Gorguts e Immolation), gli Ulcerate si riaffacciano sulle scene con un’opera che ne ribadisce il tocco visionario, la capacità di imbastire orditi narrativi dalla carica emotiva impressionante, e che al contempo ne plasma lo stile in un’ottica mai così controllata e viscerale, spezzando una volta per tutte i legami con il metallo della morte propriamente detto. Un salto compiuto tenendo a mente la rincorsa del precedente “Shrines of Paralysis” – primo riuscito tentativo di dare una connotazione armonica al suono del gruppo – e che al momento dell’atterraggio si concretizza in una tracklist molto più accostabile all’universo ‘post’ e sludge-core che a quello di Luc Lemay e compagni.
Otto brani intenti a dipingere città in rovina, deserti che avanzano e mari che scompaiono usando come tavolozza di colori un rinnovato senso della melodia e come pennello una predilezione per midtempo lavici e crepitanti. Un incedere che discende direttamente dai vecchi classici dei Neurosis e che qui, grazie all’unità di intenti di una line-up ormai collaudatissima, si traduce in una sorta di flusso orchestrale da cui lasciarsi investire per dimenticare i concetti di speranza e futuro, rendendo risibile ogni accusa di ammorbidimento o distensione. Perchè se è vero che i ritmi sono calati e gli arabeschi melodici cresciuti in maniera esponenziale, diventando i motori trainanti delle composizioni, non si può certo dire che “Stare into Death and Be Still” risulti meno ostico e complesso della passata produzione dei neozelandesi. Al contrario, non basteranno dieci ascolti consecutivi per coglierne tutti i particolari, complice una scrittura avvolgente che esalta l’alternanza di pieni e vuoti, di contrazioni e distensioni, sul filo di un guitar work obliquo e stratificato e di una serie di impalcature ritmiche che – tanto per cambiare – incoronano Jamie Saint Merat come uno dei batteristi più precisi e fantasiosi in circolazione.
Autorevolezza e personalità è ciò che si dipana inesorabile da questi cinquantotto minuti di musica; una manifestazione di potenza che ridimensiona seduta stante l’operato di molti follower usciti allo scoperto nell’ultimo decennio, a cui bastano gli arpeggi introduttivi di “There Is No Horizon” per fare da colonna sonora alla tragica deriva di questo momento storico. Spiace solo per una resa sonora non all’altezza di quella del succitato “Shrines…”, ma nel complesso il sesto full-length degli Ulcerate può già essere considerato un ‘must have’ per gli avventori degli ambienti sonori più cupi e trasversali.