5.5
- Band: ULVER
- Durata: 39:20
- Disponibile dal: 28/08/2020
- Etichetta:
- House Of Mythology
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“The threads of haunted places and images entwine. Have Ulver discovered new pastures under the sun? Or scoured the ruins of their own moonlit past? The truth is, they’re closer to their previous purlieu than perhaps ever before“. Beh, si può -per non dire si dovrebbe– essere onesti e rispondere al comunicato stampa con un sincero “..ma dove?”. Stiamo forse parlando dello stesso disco?
Gli Ulver hanno certamente fatto album non riusciti nella carriera, ma tutto sommato ognuno di questi tentava comunque di dire qualcosa, di osare, di sperimentare, almeno in qualche modo (“Messe” e i temi per “Marriage Of Heaven And Hell” di Blake ne sono forse l’esempio più emblematico). “Flowers Of Evil”, dodicesimo disco dei norvegesi, già dal titolo suona piuttosto presuntuoso ed esplicito, per non dire scontato. E tutto sommato – duole profondamente ammetterlo – i toni del discorso synth-pop ulveriano, musicale e narrativo, sono proprio questi per tutto il disco, arroccati dietro a idee (musicali e liriche) piuttosto scontate e ripetitive. Reduci da un mezzo capolavoro come “The Assassination Of Julius Caesar”, che era riuscito a ripristinare un lato electro-Eighties innestandolo con un passato tinto di oscurità malinconica e romanticismo post-metallaro, gli Ulver si arroccano sul medesimo pattern ritmico (che davvero cambia poco da canzone a canzone!) e provano a impostare una narrazione che dovrebbe sopperire alla mancanza di idee compositive interessanti con la presunta scusa del norwegian synth-pop da ex lupi post-metallari. Una mancanza che – ahinoi – procede per l’intero lavoro, quasi incondizionata. Le prime canzoni hanno esattamente lo stesso pattern ritmico, che poi si ripete inesorabile anche più avanti: l’opener “One Last Dance” sembra davvero facilotta in tutti i suoi intenti, oltre alle esplicite considerazioni esistenziali che sembrano scritte da un sedicenne arrabbiato (e comunque poco originale); così come”Russian Doll”, pressoché identica alla precedente, ma presa come singolo con la scusa che potrebbe funzionare per il suo essere più catchy (e con la fortuna di essere stata associata a un video lo-fi che rende giustizia ad un tipo di evoluzione portata comunque avanti dalla band di Rygg). Tenta, dicevamo, perché di evoluzione vera e propria – se non per una abbandonata ricerca sperimentale in favore di un mood synth-pop depressivo quasi spudorato – non è che ce ne sia poi molta.
Il tono generale sembra davvero da b-sides di “The Assassination Of Julius Caesar”. Le idee musicali sono veramente poche, di originale c’è ancora meno e i brani hanno una durata quasi da radio-edit (la più lunga è il singolo “Little Boy”, di cinque minuti e mezzo): anche questo è espressione di un intento diretto e di una volontà di essere efficaci e catchy, pur offrendo un prodotto ridondante, davvero poco intenso e per nulla variegato. Presi singolarmente, forse, i primi due singoli del disco funzionano bene, soprattutto “Little Boy”, e provano comunque che i nuovi Ulver hanno i bei suoni e probabilmente dal vivo (come hanno fatto recentemente) continueranno ad essere interessanti da ascoltare. Però qui davvero c’è davvero poco da stare ad ammirare. Si può essere fan quanto si vuole e salvare qualcosa come “Machine Guns & Peacock Feathers” o alcune tonalità di “Hour Of The Wolf”, ma è piuttosto frustrante trovarsi di fronte ad una aspettativa alta e non trovarsi altro che la medesima idea, il medesimo mood, il medesimo sound inesorabilmente ripetuto per tutta la durata del discorso.
Dal punto di vista lirico e narrativo, che a questo punto sembra essere ciò su cui l’espressività del disco sembra poggiare di più, beh, anche qui c’è davvero poco da ammirare. “We are wolves/Under the moon/This is our song/We have loved/and we have lost“. Bisognava scomodare le visioni di Orsini, nobile del sedicesimo secolo, e la sua foresta di simboli, inneggiata dal caro e vecchio Baudelaire (un nome abusato come quello della sua raccolta più celebre), o le citazioni di Bergman per dire quello che viene raccontato in “Flowers Of Evil”? La volontà cantautoriale, poi, si tinge di un’esplicita narrativa che lascia poco alla lirica e alla simbologia per semplificarsi in soluzioni che neanche il Nick Cave più annoiato è riuscito ad annotare nei suoi quaderni. “A Thousand Cuts”, che chiude il disco, inserita in un discorso di diverso tipo (ad esempio lontana dal solito pattern ritmico che si è sentito per mezz’ora) avrebbe potuto dire molto di più.
Sicuramente si poteva essere un pochettino più ricercati, soprattutto considerando la caratura di una band come questa e il suo passato glorioso e decisamente eclettico. Passato e presente che, tra l’altro, vengono insieme ad un libro di 336 pagine, “Wolves Evolve: The Ulver Story”, in uscita a fine Agosto insieme al nuovo lavoro, almeno nelle 500 copie speciali dell’edizione deluxe in vinile. Anche qui, si poteva aspettare un’occasione migliore.
“Flowers Of Evil” non è certamente un gran disco, seppur possa piacere per la sua tonalità consueta, piaciona e catchy, ma risulta davvero privo di guizzi, di idee interessanti, di colpi di coda, di nulla che possa davvero essere, se non memorabile, almeno degno del nome che si porta alle spalle. Un album che suggella un momento piuttosto presuntuoso per Rygg e soci, dimentichi del fatto che non basta cavalcare l’onda della moda (pur essendo stati determinanti per la stessa) o sfoderare i bei suoni da headliner al Roadburn per fare grande musica. Una delusione, questo nuovo lavoro dei norvegesi, piccola o grande a seconda dell’amore che si nutre nei loro confronti. Consigliato agli adolescenti, eterni o solo contingenti, da cameretta e esistenzialismo da discount. Che sia forse questo il pubblico a cui si ambisce ora? Sarà scontato aggiungerlo ma ci auguriamo veramente di no.