8.0
- Band: ULVER
- Durata: 43:20
- Disponibile dal: 07/04/2017
- Etichetta:
- House Of Mythology
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Difficile che chiunque si sia allontanato dagli Ulver per la lontananza ormai abissale dal black metal delle origini sia, almeno negli ultimi tempi, riuscito a ritornare ad apprezzare la formazione norvegese senza incrinare il suo fiero assetto da metallaro puro o senza abbandonare le considerazioni in merito ad un presunto atto di ‘svendita’ verso un pubblico sempre più ampio e verso una incatalogabile deriva sperimentale. E se fino a “The Assassination Of Julius Caesar” è stato difficile, ad oggi è quasi impossibile. L’album in questione è in assoluto il più pop e diretto che la formazione capitanata dal buon Rygg abbia portato alle stampe e questi coloro che si sono allontanati dagli Ulver di certo non avranno intenzione di stare ad ascoltare questa nuova deriva affabile e diretta e ancora una volta senza alcun nessun interesse da ritrovare. Vuoi per la sortita dall’underground e per una certa vicinanza a territori più hipster e commerciali, o vuoi per una impossibilità a trovare un senso al percorso della band. Per coloro, invece, che hanno sempre ritenuto interessante la divagazione – più che progressione – sperimentale della band, allora ci si troverà di fronte ad un album che è sicuramente un qualcosa che lascia esterrefatti. Se già con “Nemoralia” si erano sentiti i connubi coi Depeche Mode essere ormai assodati, non si può che confermare che durante tutta la durata dell’album il sentore electro-pop abbia avuto la meglio, grazie soprattutto all’apporto in produzione di Martin “Youth” Glover (Killing Joke, Verve e ultimamente anche con – l’ottimo – Hypnopazuzu di David Tibet). A questo, però, si deve aggiungere che la maturazione della band è arrivata ad altissimi livelli e il prodotto in questione risulta sollevato da qualsiasi giudizio in negativo per quanto riguarda la qualità degli arrangiamenti, dei suoni e delle liriche. ‘I want to tell you something / about the grace of faded things’ si sente in “Southern Gothic” e il tutto rientra in un clima di poetica decadente cara ai norvegesi, dalla morte di Lady Diana al “Ratto Di Proserpina” del Bernini. Il sassofono dell’ex-Hawkwind Nik Turner tratteggiato in “Coming Home” diventa uno degli episodi più mirabili di neoclassicismo, avanguardia, anima gothic di reminescenza William Blake, e sapore eletro-pop, in una cascata di innesti lirici e di groove che portano a lustro una composizione che riesce ad essere easy listening senza però risultare banale, riuscendo a tirare in mezzo le trame migliori di “Perdition City” e “Shadow Of The Sun”. Kristoffer ‘Garm’ Rygg ha in assoluto il più largo spazio vocale che abbia mai avuto nel suo collettivo di musicisti ulveriani. Brani come “Rolling Stone” riprendono il trip-hop di natura bristoliana e lo trasportano all’interno di un contesto che conosce la psichedelia, l’art pop più moderno di certi St. Vincent e i suoi ritornelli, innestandolo con voce femminile e pattern ipnotici di retrogusto datato, per non risultare gretti cavalcatori dell’onda del modernismo o del ripescamento dei toni Eighties elettronici ma perché intrigati dalle atmosfere che questo tipo di approccio e risultato possano oggi (ri)creare. In dieci minuti c’è la canzone da ritornello facile, la psichedelia ipnotica di certe discoteche dark, una outro da capogiro IDM e un connubio che, non si sa se per retroscena o passato, risulta carico di influenze musicali intercorse nella discografia dei norvegesi. Laddove i Depeche Mode risultino paragone fondamentale, non ci si dimentichi di un certo eco di David Bowie e Tangerine Dream che riesce a fare capolino nella bellissima “So Far The World”, pop elettronico intelligente e malinconico, ricco di storia e di emozione. “The Assassination Of Julius Caesar” è denso, ricco, elegante, camaleontico eppure diretto, affabile, comunicativo, e porta con sé uno stato di flusso in cui immergersi e rimanere colpiti da quello che una formazione come gli Ulver possa ancora dire in fase compositiva (contando anche che siamo al terzo album in due anni). Senza paragoni fastidiosi e insensati si può affermare che l’album, senza essere un capolavoro, è una vetta qualitativa comunque mirabile del progetto che si nasconde dietro al monicker Ulver, ancora lungi dalla catalogazione e dall’arida inutilità di un altro nuovo disco per promuoversi o per recuperare nuovi ascoltatori.