7.5
- Band: UNFATHOMABLE RUINATION
- Durata: 00:43:24
- Disponibile dal: 17/11/2019
- Etichetta:
- Willowtip Records
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Con un artwork che sembra a tutti gli effetti l’evoluzione degenere di quello di “The Bleeding”, la terza fatica sulla lunga distanza degli Unfathomable Ruination non fa nulla per nascondere le sue influenze e la sua natura di album ‘di genere’. Come già avvenuto in occasione dell’esordio “Misshapen Congenital Entropy” (2012) e, soprattutto, del notevole “Finitude” (2016), i cinque ragazzi londinesi incanalano in questi solchi un concentrato di ‘brutal’ death metal dall’impatto stordente e dal quoziente tecnico elevatissimo, impegnandosi il più possibile per pagare pegno ai cosiddetti maestri (Suffocation e Cryptopsy da un lato, Origin, Defeated Sanity e buona parte del vecchio catalogo Unique Leader dall’altro) senza precludersi ulteriori modalità espressive.
Accortezze minime, a ben vedere, ma che sommate alla capacità di imprimere un forte dinamismo alle composizioni danno vita ad una tracklist mutevole e vorace, lungi dall’essere soltanto una sequenza di riff arzigogolati e blast beat spasmodici. Si punta chiaramente all’accumulo (basti sentire i sei minuti della terrificante opener “An Obsidian Perception”), ma il tutto si mantiene entro le soglie del raziocinio e del senso armonico, facendo leva sulla vivacità e sulle continue contrazioni/distensioni del guitar work per regalare momenti di facile presa e genuina carica distruttiva, oltre che qualche scorcio di melodia utile snellire l’ascolto. Un viaggio nell’underground più oltranzista di tardi anni Novanta/primi anni Duemila che non disdegna puntate sui sentieri mefistofelici di Aborted e Hideous Divinity, a riprova di un approccio non solamente devoto alla gutturalità e pronto a schiudersi in digressioni atmosferiche di un certo spessore, all’interno delle quali non è poi così difficile imbattersi in elementi black metal. A fronte di un menu tanto ricco e studiato nel dettaglio, spiace solo che la produzione di Neil Kernon e Alan Douches risulti inspiegabilmente ovattata e messa poco a fuoco; di sicuro un passo indietro rispetto a quella potentissima del precedente capitolo.
In ogni caso, forma a parte, l’album regala grandi momenti: dalla suddetta opener all’epica “Occulta Violentiam” (con l’amico Sven de Caluwé a comparire in veste di ospite), passando per le più serrate e muscolari “Codebreaker”, “Maniacal Disillusion” e “Fibers”, “Enraged & Unbound” si dimostra frutto di una band esperta e competente, fra le poche oggigiorno a maneggiare queste sonorità in maniera fluida e coinvolgente. Giusto un filo sotto il ritorno dei Disentomb.