8.0
- Band: UNFATHOMABLE RUINATION
- Durata: 00:46:22
- Disponibile dal: 08/31/2016
- Etichetta:
- Sevared Records
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Il cosiddetto ‘brutal’ death metal è una faccenda strana, una terminologia insidiosa che sovente diviene il pretesto per oltrepassare i confini del buon gusto e di ciò che il senso logico vorrebbe venisse applicato alla musica. Da un lato la corrente slam con tutto il suo corollario di breakdown e rallentamenti lordissimi, capeggiata da gente come Epicardiectomy, Kraanium e Vulvectomy, dall’altro il partito della tecnica e dell’onanismo strumentale più sfrontato, in cui la ricerca dell’effetto speciale, dello shred da mani nei capelli coincide con un’algida mancanza di comunicazione. E poi ci sono le mosche bianche. Gruppi che vivono in delicato equilibrio tra questi due estremi, congiungendoli sull’altare di un songwriting sì pericoloso e terrificante, ma anche dinamico e perfettamente intelligibile. Facile in questi casi pensare ai ‘nostri’ Antropofagus, Hideous Divinity e Septycal Gorge, maestri conclamati di un certo modo di intendere il genere, ma che dire dei britannici Unfathomable Ruination? Dalla pubblicazione del notevole esordio “Misshapen Congenital Entropy” il quintetto londinese non si è praticamente più fermato, allungando a dismisura il proprio curriculum live e rilasciando un EP (“Idiosyncratic Chaos” del 2014) atto a documentare i progressi sul fronte della composizione e dell’arrangiamento, fondamentali per il raggiungimento della piena maturità. Alla luce di una simile tabella di marcia era lecito aspettarsi un ritorno mastodontico, portentoso, che alzasse ulteriormente l’asticella e sbaragliasse larga parte della concorrenza underground… e così è stato. Perché “Finitude” è tutto ciò che le nostre orecchie vorrebbero sentire in alternativa ai vari “Antithesis”, “Consume the Forsaken” e “Pierced from Within”: un’orgia di US death metal frenetico e terremotante, giocato su continue contrazioni da parte della sezione ritmica e su un guitar work a dir poco stratificato, che arriva persino ad inglobare parentesi melodico-atmosferiche di rara sensibilità (basti sentire l’opener “Pestilential Affinity” o la suite “Forge of Finitude”). Tonnellate di riff e cambi di tempo che si accavallano fino a generare brani dal minutaggio robustissimo, eppure sempre fluidi, vivaci e mai ridondanti, in cui una forza bruta tremenda e una padronanza strumentale fuori dal comune diventano le armi imbracciate dai Nostri per schiacciarci al suolo, insistendo ora su rallentamenti catastrofici, ora su sfuriate convulse e tese fino allo spasimo. Davanti ad un simile dispiego di classe e potenza, le prove dei singoli possono anche passare in secondo piano; tuttavia, ci preme sottolineare l’operato di Federico Benini al basso (quasi a se stante da quello delle chitarre) e di Doug Anderson alla batteria, senza dubbio tra i più annichilenti e fantasiosi uditi ultimamente in certi ambiti, per un risultato finale che – unito alla produzione mostruosa di Samuel Turbitt, Neil Kernon e Alan Douches – ci consegna quello che non esitiamo a definire uno dei dischi death metal dell’anno. Ascolto quasi obbligato.