7.5
- Band: UPON A BURNING BODY
- Durata: 00:02:11
- Disponibile dal: 06/05/2022
- Etichetta:
- Seek And Strike
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Gli Upon A Burning Body erano dei prospect interessanti in ambito metalcore/deathcore, la loro versione Tex-Mex a tutto Jagermeister aveva raccolto diverse simpatie sia tra pubblico che tra addetti ai lavori. Poi, all’improvviso, il genio: il frontman Danny Leal si inventa vittima di un rapimento per lanciare il terzo disco “The World Is My Enemy Now”. Uno scherzo di cattivo gusto che non ha fatto ridere nessuno e per il quale il frontman non si è mai scusato, giocandosi l’aperto supporto della scena e il voltafaccia di parecchi fan. I ragazzi di San Antonio non si sono comunque mai fermati, imboccando recentemente la strada dei Pantera su “Southern Hostility” e continuando a far bene nonostante i cambi di formazione (questa volta cambiano il bassista, frazie all’ingresso del fratello del chitarrista Thomas Alvarez). La direzione di “Fury” farà lieti non solo i fan dei Pantera stavolta, ma anche quelli del gruppo che è in un certo senso l’erede della band di Dimebag, gli alfieri del ‘pure American metal’ Lamb Of God. Siamo davanti infatti a dieci pezzi fondati chiaramente sul groove a tutti i costi, eseguiti a gran velocità e con assoli taglienti, breakdown punitivi e attitudine senza compromessi. Non sappiamo quale scegliere in effetti tra “A New Responsability”, “Snake Eyes” e “Shapeshifter” come migliore opener, tutte e tre sono brutali e contagiose allo stesso modo, con quei ‘pinch armonics’ e retrogusti blues che tanto piacciono ai fan delle band di Randy Blythe e Phil Anselmo. Proponiamo invece “Meltdown” come miglior pezzo in assoluto, anche se chiaramente debitore alla band di Ritchmond; con un tiro del genere, un ritornello azzeccato e le sirene spiegate non si può davvero sbagliare. Solo l’accostamento a quei nomi sacri pare conferire a “Fury” il premio di miglior disco degli UABB, ma non è proprio così purtroppo. Oltre alla somiglianza a volte troppo marcata con i propri punti di riferimento – già di per sè un limite – ci si accorge presto che la ‘rifferia’ non è ai livelli di maestri come Mark Morton e Willie Adler, figuriamoci di leggende come Dimebag. Proseguendo inoltre con l’ascolto troviamo nelle clean vocals di Leal un punto debole non indifferente: con le voci in primissimo piano, i ritornelli super riverberati e ottantiani di “Thunderheart”, “Kill The Ego” e “Code Of Honor” fanno davvero storcere il naso, stridendo in malomodo c on il resto delle composizioni. Tirando le somme energia ed attitudine ci sono sempre e comunque, i groove sono gustosi e il minutaggio breve facilita notevolmente l’ascolto. Senza farci strappare i capelli, per usare un’espressione fedele alla passione golfistica di Danny, gli Upon A Burning Body la mettono di nuovo in buca.