7.5
- Band: URFAUST
- Durata: 00:37:26
- Disponibile dal: 25/08/2023
- Etichetta:
- Ván Records
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Finisce così, un semplice annuncio sui propri canali ufficiali, a decretare la fine di una band molto amata nell’underground europeo. Gli Urfaust hanno attraversato vent’anni spaccati di metal europeo ponendosi di traverso a tante correnti del metal estremo e non, ammaliando gli ascoltatori più devoti a sonorità plumbee, enigmatiche, spirituali e incantatrici. Nella sterminata produzione del duo – innumerevoli gli split e gli EP – si è sempre rintracciata la ricerca della trance, di uno stato cognitivo alterato, indotto da musica e altre sostanze, tra cui non poteva mancare l’alcol, ingurgitato in dosi massicce (se avete assistito a un’esibizione della formazione e alle libagioni durante le stesse del cantante/chitarrista IX, sapete di cosa stiamo parlando).
In contemporanea alla notizia dello scioglimento, arriva quella dell’uscita dell’ultimo album, il settimo, un inno a quegli stati alterati, di meditazione, esplorazione, ascesi e, perché no, confusione dei sensi, ai quali gli esperti musicisti si sono perennemente dedicati con questa loro creatura. Raggiunto quello che ancora oggi riteniamo essere l’apice creativo e concettuale dell’esperienza Urfaust, il monumento di doom e dark-ambient “The Constellatory Practice”, negli ultimi due full-length IX e il batterista VRDRBR si sono gettati a capofitto nell’astrattismo. I confini tra gli strumenti si fanno labili e quasi inesistenti, feedback e rumori si amplificano, le sinistre iniezioni di ambient si diffondono platealmente, corrodendo strumenti e anime. Quel carattere quasi liturgico e salmodiante già apprezzato in molti episodi del passato era andato a prendere il sopravvento in “Teufelsgeist”, uscito tre anni fa, e si ripresenta anche oggi, permeando nella sua interezza “Untergang”. Un’opera intrinsecamente Urfaust, semplice e scheletrica nelle ossessive ritmiche di batteria, incanalata presto su binari disturbanti, dove doom, scampoli black metal, musica oscura a trecentossessanta gradi e ambient si mescolano e affliggono a vicenda.
L’impatto iniziale, per chi conosce bene la produzione dei Nostri, potrebbe essere quello di una familiarità fin eccessiva con questi suoni e strutture. Per chi non si avvezzo a questo stile, incontrare gli Urfaust potrebbe essere un’esperienza snervante. Perché al primo approccio questa è musica che sembra non sapere dove andare, persa in una sua indefinitezza, altera, risucchiata in una dimensione ultraterrena di non facile accessibilità. È necessario farsi inghiottire, rintronare dai contenuti di “Untergang”, che avanza preferibilmente lento, a volte disturbato e gretto, in altre occasioni sinistramente soave, mortuario con un grande senso di decoro e rispetto. Il cantato nasale, eccessivo, enfatico oltre ogni limite di IX è il primo elemento a catturare l’attenzione, come da prassi, presto seguito dal ritmo facile e ingannatore della batteria e, infine, l’avvolgente tappeto chitarristico. Essenziale, diviso tra spinte punitive e desiderio di spingere verso il buio, si connota di un potere mistico irrefrenabile; un’aura maledetta inconfondibile, costruita su poche note, calma, un talento spiccato per disegnare atmosfere cariche di fascino partendo dal nulla.
Come per “Teufelsgeist”, bisogna collegare per bene tutte le tracce per apprezzare il quadro generale, quello di un rituale finale, celebrante l’occulto e tutto ciò che viene celato ai nostri occhi, vaga nell’ombra, non si mostra a nessun altro se non agli iniziati, coloro che sanno leggere certi segnali e scrutare in luoghi proibiti. “Leere” e “Abgrund” mostrano perfino una maestosità lo-fi, possedute nel profondo dal cantato sopra le righe di IX e dalle sue trionfali trame chitarristiche. Il resto del disco predilige invece un più spoglio ermetismo, rinvigorito da una produzione che tiene i suoni sgranati, per nulla rifiniti, molto veri e pungenti.
In “Untergang” c’è ancora quella strana alchimia che ha fatto diventare gli Urfaust uno dei gruppi più seguiti del sottobosco extreme metal del Vecchio Continente, con la loro spiritualità eccentrica e il perverso ipnotismo che li ha sempre accompagnati. Questo è un commiato da vivere appieno, senza rammarico ma grati di quanto la band è riuscita a dare di prezioso a tutta la scena.