9.0
- Band: URIAH HEEP
- Durata: 00:41:14
- Disponibile dal: 11/1971
- Etichetta:
- Mercury
Non vogliamo iniziare a trattare l’argomento Uriah Heep come fa la maggior parte degli addetti ai lavori, ossia sottolineando quanto la band sia stata sfortunata a doversi misurare con la durissima concorrenza dei primi anni Settanta del rock duro inglese – rappresentata da mostri inarrivabili come Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath e Queen – e altre amenità simili. Sicuramente gli Uriah a livello commerciale, forse per un’estetica meno accattivante rispetto alle sopracitate band, hanno raccolto meno ma, a conti fatti, dopo oltre quarant’anni sono ancora qui, e non per caso. La storia parla per loro. La storia, la qualità della loro musica e le bellissime canzoni scritte nel corso degli anni. Come ogni band con più di una decade sulle spalle, anche gli Heep hanno avuto i loro problemi: primo su tutti il licenziamento del grande singer Byron dopo nove dischi in studio, licenziamento dovuto a gravi problemi legati all’alcool, che causeranno la morte del cantante nel 1985; secondo, l’abbandono nel 1980 dell’immenso Ken Hensley, fino a quel momento maggior compositore del gruppo e vero pilastro grazie alla magia creata dai suoi tasti d’avorio. A quel punto il chitarrista Mick Box, da molti considerato l’anello debole della formazione, reo secondo costoro di non avere nel proprio DNA la stessa genialità dei grandi chitarristi dei Seventies, prende per mano la band e, nonostante i mille cambi di formazione, le mode e le tendenze, porta il gruppo direttamente dalla storia ai giorni nostri, quando noi di Metalitalia.com avremo l’onore di averlo come headliner (insieme ai Destruction) della seconda edizione del Metalitalia.com Festival. Scegliere un disco tra quelli scritti con Byron per la rubrica I Bellissimi non è stato facile, vista l’altissima qualità di tutti i primi album. La scelta è ricaduta su “Look At Yourself”, terzo lavoro uscito nel 1971, in quanto questo pone le fondamenta dell’impasto sonoro che la band offrirà per tutto il decennio successivo: un robusto hard prog, impreziosito da melodie e armonizzazioni da brividi. L’apertura è affidata alla titletrack, destinata a diventare un superclassico: la chitarra di Box e l’Hammond di Hensley galoppano a briglia sciolta, generando un selvaggio hard rock in cui Byron e lo stesso Hensley pongono la loro firma con una prestazione vocale travolgente; il finale è tutto da assaporare, grazie a coinvolgenti assoli, percussioni catartiche e un drumming impazzito. Neanche un momento per rifiatare ed arriva il turno di “I Wanna Be Free”, che contrappone un cantato sorprendentemente melodico a riff di chitarra scolpiti nella roccia. Dopo un inizio a dir poco scoppiettante, arriva quello che da molti è considerato il capolavoro dell’intera discografia degli Heep, “July Morning”. Questa lunga composizione è la summa del sound della band: aperta da un organo etereo che fa da preludio alla prima parte, ancorata ad un sognante rock sinfonico, si trasforma nella seconda parte cambiando pelle, con la chitarra di Box che si inasprisce, Hensley che opta per suoni inquietanti e gli insani acuti di Byron che cambiano radicalmente la scena, facendoci dimenticare le idilliache atmosfere pastorali fin qui proposte e trasportandoci in una dimensione oscura e angosciante, resa ancora più claustrofobica da un demoniaco moog, questa volta di Manfred Mann. Capolavoro, lo diciamo anche noi, senza alcuna remora. Dopo un capitolo così impegnativo, ci si distende con “Tears In My Eyes”, basata su un classico rock’n’roll, qui iperdistorto dalla chitarra di Box. Byron mostra la solita sicurezza e il finale è tutto del chitarrista a suon di suoni saturi e acidità. “Shadows Of Grief” è l’altro capolavoro dell’album e rappresenta, probabilmente, la canzone più dark ed heavy mai scritta dalla band, in cui l’organo di Hensley e la chitarra di Box si inseguono con intenzioni belligeranti per tutta il tempo e Byron, da par suo, si cala perfettamente nella parte offrendo la performance più assatanata di sempre. Dopo tutte queste schegge impazzite, giunge veramente il momento di rilassarsi con la delicata ballad “What Should Be Done”, che vede il cantante accompagnato dal pianoforte. La band chiude i giochi con la potente “Love Machine”, composizione molto heavy godibile, ma senza grossissime pretese. “Look At Yourself” è una pietra miliare del rock duro e, dopo più di quarant’anni dalla sua uscita, mantiene ancora intatta tutta la sua magia. Onore agli Heep!