8.0
- Band: VALGRIND
- Durata: 00:39:25
- Disponibile dal: 27/07/2020
- Etichetta:
- Memento Mori
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Dopo un avvio di carriera incerto e tutt’altro che lineare, tra demo/EP ignorati dalla platea underground e un debut album licenziato a ben sedici anni di distanza dalla nascita della band (“Morning Will Come No More” del 2012), i Valgrind hanno letteralmente spiccato il volo, configurandosi come una delle realtà più solide e costanti del circuito death metal italiano. Musicisti cresciuti con il mito della Florida, di Trey Azagthoth e di tutti quei gruppi che ormai tre decadi fa diedero una connotazione ingegnosa e sfaccettata all’assalto frontale del genere (Monstrosity e Nocturnus in primis), ma che non per questo hanno deciso di replicarne ad oltranza le gesta o di non testare le proprie capacità interpretative.
Così, dopo l’ottimo “Speech of the Flame” e la parentesi tecnica e spigolosa di “Blackest Horizon”, senza ovviamente trascurare l’uscita-lampo di “Seal of Phobos”, Daniele Lupidi e compagni si riaffacciano sul mercato con un disco che sembra spesso volersi librare in una dimensione mitica ed eroica, direttamente collegata alle antiche leggende del Mediterraneo, il cui contenuto riabbraccia le atmosfere del suddetto “Speech…” alla luce di un’ulteriore sicurezza e messa a fuoco compositiva. Nove brani più intro che, racchiusi dalla produzione organica di Damian Herring (Blood Incantation, Horrendous, VoidCeremony), si muovono sinuosi all’interno di uno scenario che non si limita a mostrarci le asperità e gli avvallamenti del suono death metal, bensì a sconfinare in cieli limpidi e in distese d’acqua cristalline dal sapore inequivocabilmente classic heavy, con rimandi ampollosi alla scena greca di Rotting Christ e Varathron a rendere ancora più passionale il tutto.
Brutalità e melodia viaggiano quindi di pari passo, esaltandosi puntualmente a vicenda in un mix tanto elegante e ricco di dettagli (come nel caso delle pennellate tastieristiche di “The Curse of Pegasus Spawn”) quanto furente e scattante, memore di ciò che il metallo della morte dovrebbe sempre e comunque rappresentare. Un approccio fresco e insieme tradizionale, frutto di tre ragazzi non più giovanissimi che, mossi da un’ambizione costante e da una spontaneità più che tangibile, non smettono di migliorarsi e di confezionare opere dallo spiccato mood narrativo. “Condemnation”, complici brani del calibro di “Entangled in a World Below”, “The Day” e “Storm Birds Descent”, è soltanto l’ultimo picco di un percorso artistico in continuo divenire.