7.5
- Band: VALLENFYRE
- Durata: 00:41:48
- Disponibile dal: 31/10/2011
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: EMI
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Ebbene sì, il virus del revival death metal ha colpito di nuovo. Ad elargire ritmi nervosi e riff seganti è questa volta il buon Gregor Mackintosh, leader dei Paradise Lost che, in un momento di rabbia e sconforto all’indomani della scomparsa del padre, ha dato vita ai Vallenfyre, progetto che ha come intento la riscoperta della musica con cui il Nostro è cresciuto fra la fine degli anni ’80 e i primi ’90. Ad accompagnarlo nell’avventura troviamo alcuni amici di vecchia data: Hamish Glencross dei My Dying Bride, Scoot dei leggendari crust-hardcorers Doom e Adrian Erlandsson (Paradise Lost, At The Gates e decine di altri gruppi). In questo suo debutto sulla lunga distanza, la band sostanzialmente cerca di unire lo stile di alcuni vecchi colossi death metal – Nihilist/Entombed in particolare – con sprazzi di doom-death metal cari ai primissimi Paradise Lost (e non poteva essere altrimenti!) e una punta di crust/d-beat. Undici brani che puntano a riprodurre suoni in maniera fedele a quelli dell’epoca d’oro del death metal svedese, con chitarre distortissime e un growling non troppo chiuso (a opera dello stesso Greg), il tutto su giri di batteria mai eccessivamente tirati. Detto così, sembrerebbe di trovarsi di fronte a una “revival” band a tutto tondo, sulla scia di Chaosbreed o primi Bloodbath, tuttavia preme sottolineare come la presenza al timone di Mackintosh si faccia sentire in maniera inequivocabile sia sotto il profilo delle strutture – chiare e catchy, proprio come quelle del suo gruppo principale – sia sotto quello dele linee melodiche, che sembrano essere studiate nei minimi dettagli. Si riconosce, in sintesi, la mano di un musicista dalla cultura ampia e con un gusto spiccato in tema di forma canzone: i pezzi non hanno la fisionomia di un treno in corsa lanciato a folle velocità solo per il gusto di farlo; vi è una logica dietro ogni break e una ovvia cura per i dettagli. Una traccia come “My Black Siberia”, del resto, la dice lunga su colui che è a capo del progetto: ritmiche quadrate, riffing avvolgente, impronta doom-death… ma una linea melodica che si stampa subito in testa, squisito retaggio dei Paradise Lost! Arricchito da una produzione heavy ma equilibrata, “A Fragile King” si impone quindi all’ascolto con efficace sinuosità multiforme, giocata sull’alternanza tra brani brutali e altri più controllati e decadenti. Vi sono forse un paio di filler nella tracklist, ma nel complesso siamo al cospetto di un esordio convincente, all’insegna di classe ed esperienza.