7.5
- Band: VEIL OF MAYA
- Durata: 00:35:19
- Disponibile dal: 12/05/2023
- Etichetta:
- Sumerian Records
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Contro il logorio della vita moderna, “[m]other” è la risposta. E anche se non si ha ancora avuto modo di formulare una qualsiasi domanda, la risposta è sempre “[m]other”.
Perché, se il tempo è stato tiranno in questi lunghi sei anni di assenza dall’uscita nel 2017 di “False Idol”, la risposta che molti fan aspettavano era sicuramente il ritorno dei Veil Of Maya, i quali hanno speso bene ogni singolo secondo nel creare un condensato di potenza per molti aspetti perfetta, tra le sfuriate metalcore, le pesanti strutture deathcore e i passaggi ipertecnici djent.
Il settimo album della band di Chicago vede gli storici e membri fondatori Marc Okubo alla chitarra e Sam Applebaum alla batteria, il veterano Danny Hauser al basso e al terzo lavoro Lukas Magyar dietro al microfono. Poco più di mezz’ora per venire catapultati in una centrifuga di suoni taglienti e martellanti, come lasciano subito intendere le prime due inchiodanti tracce “Tokyo Chainsaw” e “Artificial Dose”, soprattutto grazie alle molte incursioni di stampo math-rock, come anche nell’intro di “[re]connect” e ai ritmi sincopati e stoppati, con qualche apertura più ariosa come nei ritornelli cantati puliti.
Non solo muri sonori e schiaffi a ripetizione, dato che la frequentazione di alcuni concerti dei Rufus Du Sol (gruppo di dj australiani) ha portato il chitarrista Marc Okubo a sperimentare e aggiungere una forte componente elettronica come in “Mother pt.4” (nella parte iniziale con un rimando alla sigla di “Stranger Things”), ma anche nel singolo “Red Fur”, con pure l’inserimento di parti triggerate, e infine nel pezzo più estremo e più variegato, “Disco Kill Party”, un mix esplosivo di generi e dal forte impatto sonoro.
Per accomiatarsi da quello che è un ascolto che non lascia assolutamente indifferenti, il gruppo dell’Illinois si cimenta in altre tre tiratissime tracce quali “Synthwave Vegan”, “Lost Creator” e “Death Runner” dove i tapping infiniti di Okubo, le rullate ipersoniche di Applebaum, le parti di slapping di Hauser e le urla di Magyar ci inchiodano a coccolare questo piccolo ma potente lavoro dei Veil Of Maya, autentica forza della natura.
Il silenzio non sarà più lo stesso dopo l’ascolto di questo “[m]other”. L’unica pecca è che, dopo aver aspettato sei anni, questo nuovo gioiellino in purezza ci sembra corso via così velocemente, e si vorrebbero questi vortici di suoni ancora e in maggior numero, forse anche per la stranezza delle miscele di generi e per le sperimentazioni da cui il quartetto statunitense non si tira certo indietro.