8.5
- Band: VEKTOR
- Durata: 01:13:21
- Disponibile dal: 05/06/2016
- Etichetta:
- Earache
- Distributore: Audioglobe
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L’attesa era tanta. Spasmodica. Quasi nevrotica. Non poteva essere altrimenti, nel panorama thrash attuale gli unici a svettare sulla concorrenza e a farsi strada senza complessi d’inferiorità anche fra le leggende del settore sono loro, i Vektor. Quattro musicisti visionari, lanciati a ripercorrere i fasti dei Voivod e di tutto il miglior progressive thrash fin dallo straordinario esordio “Black Future”. Dal 2009, anno di uscita di quel full-length, la fama della band è cresciuta a dismisura, “Outer Isolation” l’ha consolidata e le prime date nel Vecchio Continente hanno confermato che siamo al cospetto di qualcosa di veramente speciale, un unicum nell’attuale panorama metal. Va da sé che per “Terminal Redux”, in arrivo a quattro anni e mezzo dal predecessore, si sia formato un hype incendiario, alimentato a dovere da ben tre pezzi resi noti prima della data di rilascio (“Ultimate Artificer”, nota già a novembre 2015, “Charging The Void” e “Pillars Of Sand”). Ora che abbiamo l’album per le mani, vi potremmo semplicemente dire di lanciarvi nei negozi, sui mailorder, ovunque il prodotto sia disponibile, acquistarlo e farvelo recapitare a casa nel minor tempo possibile. Eliminare quindi i disturbi esterni e godervelo. Non ascoltarlo – dovete proprio subirlo, farvelo entrare dentro bruscamente e concedergli di spararvi nello spazio profondo. Se avete imparato a memoria ogni passaggio del materiale già edito, se sbroccate disarmati a ogni accelerata di Blake Anderson dietro le pelli, ripida scala solista di Erik Nelson, acrobazia di Frank Chin al basso e urlo strozzato di David DiSanto, non c’è nemmeno bisogno che andiate avanti a leggere. È rimasto tutto tale e quale, rielaborato e shakerato con frenesia, energia, voglia di stupire e animosità, le stesse che hanno condotto i giovani americani nella prima fascia del metal contemporaneo in tempi brevissimi. La grandezza di “Terminal Redux” sta, come avvenuto del resto coi primi due dischi, in un songwriting che aggiunge qualche nuovo elemento senza operare stravolgimenti, in un bilanciamento sublime di aggressività smodata e peripezie strumentali schizofreniche, perfettamente allineate a un concept fantascientifico molto particolareggiato. La storia, complessa e appassionante, si snoda fra capitoli vorticosi, ficcanti, che non derogano all’impatto assassino anche quando, e capita spessissimo, il quoziente di difficoltà sfiora la follia più completa e sembra che un big bang sia dietro l’angolo, pronto a spazzare via la musica e lasciare spazio al solo caos. In “Charging The Void” ecco emergere un primo sorprendente segno distintivo: nella seconda metà intervengono angeliche voci pulite, a opera di cantanti soul di Filadelfia, città che funge ora da base operativa della band. Un coro celestiale che fa incontrare il techno-thrash con i deliri gentili di Devin Townsend, accompagnati da sassate in blast beat e assoli ancora più cristallini e portati a celebrare le meraviglie cosmiche. “Cygnus Terminal” e “LCD (Liquid Crystal Disease)” sfoderano altri numeri di altissima scuola, imbizzarrendosi in contorsioni abbacinanti e quindi calmandosi, lievemente, in riff meno impazienti, incamerando la lezione dei Megadeth di “Rust In Peace” nel fornire un minimo di orecchiabilità e circolarità a brani ruscellanti in mille direzioni diverse. Non ci sono eccessi di confidenza, sbrodolate, lo shredding si sposa alla concretezza, cavalcate furibonde decollano in labirinti multiformi da cui si sa dove si entra, quasi mai dove si esce. Ma se ne esce sempre bene! Il trittico “Ultimate Artificer”-“Pteropticon”-“Psychotropia” sintetizza trent’anni di thrash, amalgamando armonie liquide, esplosioni soliste schizzate, fughe e controfughe, chorus anthem ici e controtempi da infarto. Per dire, il solo primo minuto di “Ultimate Artificer” varrebbe da solo l’acquisto del disco, zeppo di stranezze palpitanti, rompicapo e un senso di immensità pervasivo. “Pillars Of Sand” emerge per le partiture di basso sensazionali di Chin e una metrica particolarmente furente di DiSanto, contrapposta a ricami chitarristici sfolgoranti, imperniati su sinusoidi melodiche a presa rapida. Se si è a completo digiuno di Vektor, si può partire da qui per esplorarli. La coda della tracklist regala la sorpresona: una semi-ballad alla Metallica, quelli di “Ride The Lightning”-“Master Of Puppets”, intitolata “Collapse”. Arpeggi pacati, chitarre poco distorte e il cantato pulito la fanno da padrone per quasi l’intera durata, ci si lascia assuefare da controllate impennate ritmiche e un magnifico senso di perdizione. I Vektor dimostrano di saperci fare benissimo anche quando staccano il piede dall’acceleratore e non schiacciano l’ascoltatore sotto cascate di note assassine. Entusiasmante la progressione conclusiva, che spalanca le porte al contraltare dell’opener, cui è speculare in alcuni andamenti. “Recharging The Void” ripropone le voci pulite dell’avvio e sfocia nel progressive dei Rush (avete letto bene…) riletto in ottica avanguardistica. Gli intrecci vocali guadano il territorio insidioso dell’opera rock, per qualche istante, e ci portano per mano al termine di un percorso tanto intricato quanto maestoso e appagante. Terzo disco, terzo capolavoro. Avremmo potuto scrivere solo questo, ma dovevamo giustificare il nostro ruolo e provarvi a spiegarne anche i motivi.
“Our fate implodes upon our crux/ The Terminal is set to self-destruct”.