7.0
- Band: VILLE VALO
- Durata: 00:56:48
- Disponibile dal: 13/01/2023
- Etichetta:
- Spinefarm
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Qualunque sia il giudizio personale sugli HIM, con tutte le discriminanti del caso sui diversi periodi di carriera della band finlandese, sarebbe ben difficile non riconoscere a Ville Valo un ruolo di rilievo nell’ambito di certe sonorità, a cavallo tra goth e pulsioni romantiche di consumo.
Assodato ormai da anni lo scioglimento della band madre, era quindi inevitabile – al netto di potenziali tracolli personali – aspettarsi che il principale compositore e frontman di questa band di culto tornasse tra noi con qualche altro progetto; in questo caso il tenebroso cantante ha scelto la strada più diretta: un album solista a proprio nome (o quasi, dato che in copertina opta per le sole iniziali VV), che non sorprende, ma nemmeno delude troppo le aspettative. All’alba del 2022, Valo non ha nulla da dimostrare, se non di essere ancora vivo e di voler comunicare qualcosa; inutile aspettarsi un ritorno al sound più cupo di dischi come “Greatest Lovesongs 666” o “Razorblade Romance”, e per fortuna – diciamo noi –, così come evita anche di ripetere stancamente la formula del brano dark da supermercato, catchy e bombastic, che aveva preso il sopravvento da “Dark Light” in poi. Qui abbiamo un disco in cui, pur nel solco di quanto da lui stesso definito, Ville si fa più delicato e ottimista, per così dire. Sceglie melodie facili, più pop che metal, ma lo fa con classe e con la consapevolezza dell’età: anche un sex symbol come lui va per i cinquant’anni, e risulta meno ridicolo smorzando certi toni e facezie. Manca magari un po’ di spinta in più, in pezzi stuzzicanti ma che non decollano del tutto (“Echolocate Your Love”, la stessa title-track), ma alcuni episodi, nel mostrare senza vergogna il passaggio da vampiro strappamutande a ex maledetto un po’ attempato, funzionano alla grande ed entrano subito in testa (“The Foreverlost”, “Salute The Sanguine”). I pezzi più lenti risultano a un primo ascolto un po’ stucchevoli; non bastano la chitarra a dodici corde, innesti di tastiera e dilatare brani tutto sommato semplici a sei/sette minuti di durata per trasformare i Coldplay nei Cure, volendo fare un’iperbole cattivella; ma alla fine, dopo qualche giro sullo stereo, alcuni di essi dimostrano che, quando si hanno doti compositive, le si può mettere a frutto anche con maggior pacatezza. Ne sono ottimi esempi “Loveletting”, una ballad suadente e raffinata, oppure la pomposa e a tratti straziante “Heartful Of Ghosts”, o ancora la conclusiva “Vertigo Eyes”: a tratti verbosa, un po’ incerta nelle sue pulsioni, ma emozionante nei suoi contrasti e nel crescendo di chitarra e synth che ne caratterizza una lunga sezione.
Nel complesso, “Neon Noir” non è un disco che entrerà negli annali, lo diciamo con franchezza. Ma ha un valore apprezzabile come ritorno in pista a cuore aperto e sincero di un personaggio di cui ci dispiaceva la sparizione totale dalle scene.