7.0
- Band: VIRGIN STEELE
- Durata: 01:19:34
- Disponibile dal: 22/06/2015
- Etichetta:
- SPV Records
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
Nonostante nel momento in cui uscì “Black Light Bacchanalia” raccolse diverse recensioni anche molto entusiastiche, chi scrive ora non ha mai condiviso del tutto questa euforia per il dodicesimo album dei Virgin Steele. Certo, indubbiamente rappresentava un passo avanti rispetto al barcollante “Vision Of Eden”, ma ancora mostrava il fianco a critiche che mai vorremmo sentire associate a una band heavy, e men che meno ai Virgin Steele: le chitarre mancavano (ancora) di potenza e la registrazione non rendeva (ancora) loro pienamente giustizia. Peccato dunque per un songwriting che sembrava migliorato e per l’aumentato coinvolgimento di Pursino: il risultato era comunque un disco che non graffiava come doveva, e anche i colpi che tirava erano attutiti, come se si fosse avvolto un panno bagnato sulla testa di metallo di un martello da guerra. Il qui presente “Nocturnes Of Hellfire & Damnation” qualche passo avanti lo fa e le chitarre hanno di nuovo il suono che potevano avere su “The House Of Atreus”; inoltre anche dal punto di vista del pentagramma si sono recuperati alcuni dei grandi spunti che rendevano delle piccole gemme gli album centrali della loro carriera, ma ancora del tutto non si è abbandonato l’approccio (eccessivamente?) barocco e sinfonico degli ultimi due capitoli. Il risultato è un album valido, con canzoni in media più che buone, un paio di bombe, un paio di scivoloni, e un approccio ancora forse un po’ troppo… ‘poco heavy’ per i nostri gusti, ma che grazie ad un ritrovato sound di chitarra riesce comunque a farci gioire. Bastoni e carote, insomma, per un album comunque lungo 80 minuti diviso in 14 canzoni nel quale, per fortuna, ogni ascoltatore può sentire quello che vuole e nelle modalità lui consone. Sicuramente ‘in palla’ è l’inizio dell’album, con l’accoppiata “Lucifer’s Hammer” e “Queen Of The Dead”, due brani in cui si coglie bene il sound ‘back to the roots’ di cui parlavamo, associato però al mood romantico/oscuro della loro più recente discesa nel campo dell’opera sinfonica. Dopo quindi un ottima partenza, che già ci faceva sperare nell’hot album, miglioriamo ancora con la gloriosa “Black Sun – Black Mass”, sparata heavy Anni ’80, nel pieno stile dei due “Marriage Of Heaven & Hell”. Chitarroni sostenuti, un buon assolo e vocals aggressive e impostate ci parlano di una band che non rinnega il passato recente, ma che guarda con la giusta nostalgia e voglia di riscatto al sound dei tempi migliori. Gli otto minuti di “Persephone” alzano ancora (non lo credevamo possibile) il livello, mostrandoci un De Feis veramente superbo, ma portando però l’intero album al suo apice, prima di iniziare una brusca discesa. Purtroppo infatti altri quasi quaranta minuti seguono questo piccolo capolavoro di metallo epico e nobile, e a parte poche eccezioni, nella seconda metà dell’album poco troviamo che riesca anche solo a pareggiare al qualità di questi primi quattro brani. Di sicuro non ci riesce la fiacca “Devilhead”, così come la fin troppo lunga “The Plague And The Fire”, sei minuti e mezzo di cui ce ne bastavano quattro. “Demolition Queen” è solo carina, ma mostra un Pursino un po’ in carenza di idee valide, mentre “Glamour” e “Delirium” risultano troppo influenzate da qualcosa che metal non è (hard rock? Musica sinfonica?) per riuscire veramente a convincerci. Qualche sprazzo di genialità c’è, e parliamo della bella titletrack, o della eclettica “We Disappear”, ma siamo certamente ben sotto il livello mostrato in apertura di album. Volendo concludere, quaranta minuti di bella musica per De Feis e soci sarebbero sufficienti a strapparci un voto ben più entusiasta, ma quando questi quaranta sono associati ad altrettanti di livello più basso non possiamo che fare un passo indietro e rifugiarci in un diplomatico ‘7’. Per il resto, sia chiaro: “Nocturnes” è ben superiore a “Vision Of Eden” e a “Bacchanalia”, e questo è quello che volevamo. Non è il nuovo “Invictus”… ma chi ci sperava più? Certamente, la prima metà dell’album ci ha regalato (e ci regalerà ancora) bei momenti.